Paolo Croci

Gli Amici del Teatro - Settanta anni di tradizione a Mozzate

LA COMPAGNIA ATTUALE 

Un incontro estemporaneo 

Sembrava ormai tutto terminato. L'impegno civile che aveva spinto gli "Amici di Sandro" ad aprirsi verso altri orizzonti, l'inevitabile diradarsi, per gli impegni di vita e di lavoro, delle possibilità di incontro, sembravano avere chiuso il capitolo "Amici del Teatro" a Mozzate. Tuttavia la passione si era solo assopita. Si sarebbe risvegliata cinque anni dopo, in volti nuovi e conosciuti, in nuovi entusiasmi e nuove passioni.

L'occasione fu anche questa volta la parrocchia e, più precisamente, don Osvaldo, il parroco di San Martino, che voleva proporre un nuovo spettacolo per il suo Oratorio. Ma chi contattare? In Mozzate da alcuni anni un giovane studente di Economia e Commercio, Franco Belli, aveva abbandonato gli studi universitari per dedicarsi professionalmente al teatro, che più rispondeva alla sua indole personale. 

Nelle vecchie Compagnie era stato ai margini, perché, essendo alto due metri, e a quell'epoca molto giovane, non aveva trovato un ruolo né come attore né come aiuto. Ma ora... aveva frequentato l'Accademia, già aveva collaborato con altri teatri e quindi aveva maturato una buona esperienza. Inoltre era conosciuto in paese e avrebbe potuto coinvolgere altri giovani, riallacciare i rapporti con gli "anziani" e mettere in scena uno spettacolo che ricordasse i precedenti del teatro mozzatese e, forse, ricostituire una Compagnia amatoriale. Don Osvaldo solleticò l'innata "orgogliosa vanità" che ogni attore sente in sé nel pensare alla propria professione, invitandolo a fare il regista e lasciandogli, così, carta bianca sia per il testo, che per la sceneggiatura, la scelta degli attori, le scene, i costumi. 

Franco, seppur titubante, accettò. I problemi si presentarono subito numerosi, a partire proprio dal testo. Racconta lo stesso Belli: «Innanzitutto bisognava trovare un testo adatto alla situazione. Non conoscendo le capacità degli attori risolsi per dei testi brevi e con pochi attori in scena. La scelta cadde su alcuni atti unici tratti da Cecov, semplici, briosi, accattivanti. Il secondo problema furono gli attori. Non esistendo più la Compagnia era difficile trovare le persone disposte a recitare. Chiesi ad alcuni "anziani" del gruppo "Amici di Sandro", trovandoli ben disposti. Don Osvaldo, poi, mi aiutò a ricercare fra gli adulti e i ragazzi che frequentavano l'oratorio di San Martino aspiranti attori: molti di loro si appassionarono all'idea e accettarono di sostenere un ruolo nello spettacolo. Di due particolarmente mi ricordo. La sera in cui don Osvaldo venne a trovarmi per propormi l'idea dello spettacolo, fu accompagnato da Luigi Farioli: chiesi anche a lui di recitare: ridendo mi disse che, timido com'era, al massimo avrebbe potuto fare il tecnico suoni, ma non di più. Insistetti... e credo di avere contribuito a far nascere una passione per il teatro. L'altro attore che ricordo con piacere fu lo stesso don Osvaldo, che avevamo convinto a recitare la parte a lui più congeniale: quella del prete. Ma non fu mai un attore in regola... perché pochi istanti prima di entrare in scena si rifiutò categoricamente di fare gli scongiuri di rito». 

Cooptati gli attori e scelto il testo, rimaneva da trovare un'idea che collegasse i tre atti unici tra loro. Questa Compagnia estemporanea non poteva contare su finanziamenti esterni, né su scene o costumi. Tutto quello che possedeva, oltre alla buona volontà, era un ammasso di vecchi mobili depositati sul palcoscenico del teatro in attesa di essere venduti per sovvenzionare attività missionarie. Perché non utilizzarli? Dopo aver chiesto i debiti permessi e con l'aiuto degli attori, il regista scelse ciò che sembrava più utile: un salotto in tessuto rosso, risalente agli anni '60, un lampadario, alcune vecchie valigie in cuoio, tappeti ormai sbiaditi e rattoppati, vecchi libri. Fu proprio l'estrema povertà del materiale a suggerire l"'idea" che sostenne lo spettacolo: tutto ruotò intorno a esso. La rappresentazione incominciò a sipario aperto. Il pubblico si trovò subito di fronte a una scena familiare: il teatro dell'Oratorio di San Martino, come ognuno lo avrebbe potuto vedere se fosse entrato casualmente in un qualsiasi altro momento. Gli attori entrati in scena accompagnati da una musica, davanti al pubblico scelsero dal cumulo di oggetti ciò che sarebbe servito per recitare la loro parte; in scena, all'inizio e alla fine di ogni atto si vestirono e svestirono. In particolare lo spettacolo ebbe il suo centro attorno al salotto di tessuto rosso: da qui il titolo di tutto il lavoro Intorno a un salotto rosso. Alla fine dei tre atti unici tutto, rigorosamente e precisamente ritornò come prima dello spettacolo: i tappeti riarrotolati e gli oggetti che erano stati usati per la scena di nuovo ammassati nell'angolo del palcoscenico. 

L'idea, affascinante, suscitò molto scalpore da parte del pubblico, il quale, se all'inizio rimase perplesso, ben presto mostrò di capire e apprezzare l'idea. La povertà del materiale di quello spettacolo non si limitò alle sole scene: le luci, per esempio, crearono alcuni problemi. Non potendo accendere il grande lampadario, trovato tra le masserizie del teatro, ci si dovette arrendere a utilizzare le due luci al neon già piazzate sul palcoscenico. Così per i costumi: furono gli stessi attori a confezionarsi da soli gli abiti di scena, portando da casa l'abbigliamento occorrente per il proprio personaggio. Mentre si superavano i problemi di testo, attori, scene, costumi, incominciarono le prove: iniziare alla recitazione molte persone, senza dubbio dotate e piene di entusiasmo e buona volontà, non fu certamente facile. Tra risate e gaffes le prove durarono circa un mese. Il problema più grosso fu la memoria: il giorno del debutto Belli non vide l'intera rappresentazione perché fu obbligato a restare dietro le quinte per suggerire, in quanto la maggior parte degli attori non riuscì mai a imparare l'intera parte a memoria! Durante le prove non mancarono neppure momenti di drammatica tensione, soprattutto quando il regista, maldestramente, cadde dal palcoscenico, incrinandosi due costole. Per sua sfortuna la Compagnia dapprima proruppe in una fragorosa risata, anche se poi, resisi conto della situazione, si soccorse premurosamente il malcapitato Belli. 

Il giorno del debutto fu fissato per il 25 aprile 1976. Furono attaccati in punti strategici dei paese solo tre manifesti, scritti a mano: il titolo in verde e il resto in rosso. Questa penuria di manifesti non fu causata dalla povertà caratteristica di tutto lo spettacolo, ma dalla mancanza di tempo: il titolo, infatti venne deciso solo il giorno prima della recita. Nonostante questo il pubblico fu assai numeroso e lo spettacolo ebbe un successo grande e meritato.'Ma al di là di questo bisogna sottolineare che l'iniziativa raggiunse almeno uno scopo prefissato: creò un clima di entusiasmo e di fraternità che avrebbe posto poi le basi per il futuro. 

Certamente fu in quell'occasione che fu gettato il seme da cui nacque e fiorì l'attuale "Compagnia Amici dei Teatro". E, come il seme, avrebbe dovuto germogliare nel silenzio della terra per un po' di tempo. Infatti sull'onda dell'entusiasmo si pensò di mettere in scena un altro spettacolo, più impegnativo, che potesse contare su un maggior numero di attori e su mezzi tecnici meno rudimentali. 

La scelta stessa del testo rivelava la volontà di migliorare, di misurarsi con qualcosa di più serio e difficile: l'idea accarezzata dal Belli fu quella di mettere in scena uno spettacolo tratto dall'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master. La sceneggiatura piacque a tutti e le prove incominciarono subio. Anche il numero degli attori era aumentato. 

Purtroppo un impegno di lavoro assunto dal regista (fu chiamato da Mario Missiroli per lavorare con il Teatro Stabile di Torino) troncò sul nascere lo spettacolo e la stessa Compagnia, ancora troppo giovane per poter camminare da sola. Ma come il seme sepolto sotto la neve germoglia a primavera, così l'idea di ricreare una Compagnia stabile amatoriale sbocciò pochi anni dopo.

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