Le forme del teatro

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Commedia dell'Arte
Con la denominazione onnicomprensiva di Commedia dell'Arte si definisce il teatro comico italiano `di mestiere' che, basandosi sulle risorse vocali-mimico-gestuali dell'attore professionista, si afferma dal Cinquecento al Settecento in contrapposizione al teatro aulico e accademico, caro ai dilettanti di estrazione aristocratico-cortigiana. Erede del giullare medioevale e del perseguitato istrione itinerante, il comico dell'arte recitava con la maschera `soggetti' che fissavano soltanto i momenti essenziali dello spettacolo, consentendo ampi spazi all'improvvisazione dell'interprete. Di qui le concomitanti definizioni di `commedia all'improvviso' o `a soggetto', addirittura `a braccia'. Elemento fondamentale della Commedia dell'Arte è l'identificazione di ogni singolo attore in uno specifico `tipo', ciascun personaggio conservando una fissità di fondo ed esprimendosi nel dialetto nativo (o `bravosamente' assimilato), rispecchiante il plurilinguismo della frammentazione geopolitica dell'Italia rinascimentale. L'apparente paradosso sta nel fatto che la Commedia dell'Arte si affermò sulla scia dei canoni retorici della commedia in senso lato, restaurati dall'archeologia umanistica. Fu la letteratura drammatica restaurata da Machiavelli, Ariosto, Aretino, Ruzante a non poter alla lunga rinunciare all'apporto dei comici di tradizione municipale con relative pantomime, giochi di destrezza, varianti canore e buffonesche. In definitiva fu la commedia di matrice umanistica a dare ampie possibilità agli attori professionisti inducendoli, per contrasto, alla sempre più accentuata tipizzazione del personaggio, così da rendere di immediata comprensione la metafora scenica anche al pubblico più incolto, facilitato dalla ripetitività Arlecchino del `ruolo'. Tre furono, all'origine, i personaggi-chiave degli innumerevoli canovacci e scenari: il Vecchio, l'Innamorato, il Servo. Ma poi le varianti si moltiplicarono vorticosamente, sicché al veneziano `il Magnifico', alias Pantalone de' Bisognosi, si aggiunse il bolognese Dottore (Graziano e poi Balanzone), mentre lo Zanni bergamasco dapprima si sdoppiò in primo e secondo Zanni per poi parcellizzarsi negli innumeri Brighella, Truffaldino, Arlecchino e addirittura napoletanizzarsi in Coviello, Pulcinella e francesizzarsi in Scapino, per tacere degli Innamorati diventati falange. Ai prototipi cinquecenteschi si aggiunsero ulteriori maschere, a cominciare dai vari Capitani più o meno `bravosi', nel cui ruolo eccelse Tiberio Fiorilli `Scaramuccia'. Nel contempo si moltiplicavano le raccolte di `soggetti' per comodità delle grandi compagnie (dei Gelosi, dei Confidenti, degli Accesi, degli Uniti), costrette a fare i conti con i rigori della Controriforma. `Gli Italiani' - come furono tout court ribattezzati i comici - dilagarono in Francia, Spagna, Austria e in tutta Europa, anche per merito di attori-autori come Francesco, Giovan Battista e Isabella Andreini, Flaminio Scala, Pier Maria Cecchin, Silvio Fiorilli. Tra la fine del secolo scorso e l'inizio del Novecento si manifesta, in ambito letterario, un nuovo interesse per la Commedia dell'Arte Fra i numerosi saggi che vengono pubblicati, quello di L. Rasi (I comici italiani, 1897-1905) influenza G. Craig il quale, a Firenze, dà vita a un progetto teatrale aperto agli aspetti più interessanti della Commedia dell'Arte: la maschera e l'improvvisazione che costituiscono le basi di una forma scenica che si contrappone per sua natura al teatro di parola. Parallelamente, Copeau, nella sfera dell'attività teatrale parigina del suo Vieux-Colombier, si dedica con profondo interesse alla gestualità e alla recitazione (principi fondanti della Commedia dell'Arte), concentrandosi sullo studio delle opere di Molière. Dopo essere entrato in contatto con il lavoro di Craig, da cui prenderà le distanze, Copeau progetta un lavoro teatrale teso a far rivivere il clima giocoso della Commedia dell'Arte nell'ambito di temi legati alla contemporaneità. Il progetto di Copeau - sostenuto dall'attività della compagnia da lui fondata, tra cui spiccano i nomi di C. Dullin e L. Jouvet - si concentra soprattutto sullo studio delle maschere e sulla loro rivisitazione in chiave moderna. Lasciato il Vieux-Colombier, tra il 1925 e il 1929 Copeau continua il suo progetto in un piccolo villaggio dove, con i suoi attori, forma una nuova compagnia (i Copiaus) con la quale propone a un pubblico non preparato al teatro spettacoli che riprendono le idee formulate già a Parigi. Dal suo insegnamento prende vita lo studio teatrale del mimo, di cui si ricordano soprattutto i lavori di E. Decroux e M. Marceau che tanta parte avranno sullo sviluppo del teatro contemporaneo. Un vivo interesse per la Commedia dell'Arte si manifesta anche in Russia già dal 1914, quando esce il saggio storico di K. Miklasevskij a essa dedicato (letto, tra l'altro, anche da Copeau, nella sua traduzione francese). In Russia l'attenzione è concentrata soprattutto sull'uso delle maschere che costituiscono le basi di un nuovo teatro: si ricordano i lavori di Evreinov, di Mejerchol'd (La sciarpa di Colombina da Schnitzler e Don Giovanni di Molière, 1910) e, successivamente, di Tairov (Il velo di Colombina, 1917) e di Vachtangov (La principessa Turandot). In Italia la Commedia dell'Arte influenza i lavori di S. Tofano (che crea la famosa maschera del signor Bonaventura) e di A.G. Bragaglia. Nel dopoguerra gli artisti che hanno attinto alla C.dell'A. sono, tra gli altri, P. Poli e G. De Bosio, senza contare gli allestimenti dell'Arlecchino servitore di due padroni di Strehler dal 1947 a oggi
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dramma
Le origini della parola si fanno risalire alla Poetica aristotelica e al termine drao (agisco), usato, in verità, per indicare una composizione teatrale e quindi, indistintamente, per tragedia e commedia, con riferimento agli Aristotele attori (draontes), ovvero a persone che agiscono. Durante il Medioevo, comparve la formula `dramma sacro' o `dramma liturgico', che costituì il nucleo originario del teatro religioso, intorno all'anno mille, e che era collegata alla liturgia pasquale. Soltanto con il Settecento e con l'Ottocento, il termine dramma fu usato per indicare un preciso genere teatrale, legato a una vera e propria riforma del teatro, che coinvolse uomini come Diderot e Lessing ai quali dobbiamo la nascita del `dramma borghese': un genere che aveva come punto di riferimento l'affermarsi di una diversa classe sociale, che divenne fonte di ispirazione del nuovo teatro. Compito del dramma, e quindi del drammaturgo, non era soltanto quello di aderire a schemi presi in prestito dalla realtà circostante, né di adeguare il linguaggio del teatro a quello della vita, ma la scelta di una medietà tra classe elevata e classe media, tra lingua alta e lingua bassa, che favorisse una struttura naturale, non in quanto copia della natura, ma in quanto mediatrice dei comportamenti quotidiani. Con Diderot e Lessing, il dramma aderì a una istanza codificatrice, ovvero a un discorso teorico attorno a parametri letterari e drammaturgici. Ciò che agli autori importava non era il fatto che i personaggi fossero borghesi, quanto l'impianto sociale, dentro il quale i personaggi si muovevano e instauravano delle relazioni. La famiglia diventò il microcosmo di una situazione più universale, un vero e proprio laboratorio di sperimentazione per il dramma Quando si arriva al `dramma naturalista', si assottiglia il diaframma tra rappresentazione della realtà e realtà; i suoi assertori, con in testa Zola, portarono alle estreme conseguenze i risultati di Diderot e Lessing; il dramma si caricò di verità, rappresentando un uomo per mezzo di un uomo, un oggetto per mezzo di un oggetto, fino ad arrivare ai famosi quarti di bue veri, messi in scena da Antoine, che rimandano alla teoria della reviviscenza di Stanislavskij. Accadde, così, che il `dramma naturalista', per essere incollato alla realtà, sbilanciò le sue attenzioni verso la scena, che si arricchiva sempre più di verità e che diventava il punto di riferimento primario, al quale occorreva adattare anche la recitazione. Quando sulla scena irrompono autori come Ibsen, Strindberg, Hauptmann, Pirandello, Brecht, O'Neill, muta la stessa nozione di dramma che, per essere distinta dalla precedente, è affiancata dal termine `moderno' e teorizzata da Lukacs e Szondi. Anche il `dramma moderno' ha come punto di riferimento la borghesia, essendo, in fondo, il risultato più problematico del `dramma borghese', un problematicismo, però, che si arricchisce di tensioni oniriche, mistico-religiose, dall'affermarsi dell'epicizzazione che mette in crisi i caratteri di assolutezza che lo avevano contraddistinto. Secondo Szondi, il dramma, come forma, rimase lo stesso: divenne `moderno' a causa dell'inserimento di una tematica epica, all'interno della forma tradizionale. Certamente perché esista un dramma è necessaria una collisione, ovvero un conflitto che può essere generato o da noi stessi, dal nostro mondo interiore (dramma analitico), da forze metafisiche (dramma onirico), da scontri storici (dramma storico), da disturbi mentali (dramma patologico), o da conflitti (dramma intimista). Il dramma, avendo origini borghesi, si differenzia dalla tragedia, perché ricerca le sue radici non nella morte, ma nella vita. Ai giorni nostri, il termine dramma ha assunto un significato più vasto e lo si riferisce al teatro di parola, il cui testo diviene un pretesto per la rappresentazione, che ne allarga la visione e lo adatta ad una molteplicità di espressioni.

tragedia
Nel 1911 l'esercito italiano organizza la sua prima spedizione aerobellica contro l'esercito turco sul fronte libico: l'evento fu a lungo preparato e lungamente commentato sui giornali dell'epoca. Nello stesso anno Ettore Petrolini debuttò con la celebre parodia dell'Amleto scritta in coppia con il poeta Libero Bovio, rischiando l'arresto con l'accusa di vilipendio alle patrie lettere (l'Amleto originale era stato attribuito dai gendarmi presenti in sala a Vittorio Alfieri). In questa singolare ma non casuale coincidenza si condensa il rapporto del secolo Ventesimo con la tragedia teatrale. Tutto il Novecento è segnato da una relazione che si potrebbe definire `industriale' con la morte e con la tragedia: la crudezza dei conflitti bellici internazionali (che hanno appunto il loro prologo con la guerra italo-turca), il regime fascista, nazista e stalinista, le guerre coloniali e, infine, il diffondersi, sul finire del secolo, del cosiddetto principio della `pulizia etnica' hanno imposto al mondo occidentale un radicale ripensamento del valore di ciò che era considerato `tragico' nella tradizione culturale e teatrale dalle epoche greca e romana fino a tutto il secolo Amleto di W. Shakespeare Diciannovesimo. In buona sostanza si può riassumere il senso tragico tradizionale nella contrapposizione fra un individuo e un'entità sociale, divina o spirituale collettiva. Da Eschilo a Shakespeare a Manzoni la tragedia assume stilisticamente i connotati di questo conflitto in cui, almeno da un lato, l'elemento individuale è assolutamente indispensabile. La storia sociale del Novecento consta sostanzialmente nell'impossibilità di questo conflitto: il ruolo dell'individuo, le specificità che ne fanno qualcosa di unico e irripetibile sono negati dalla riproducibilità industriale della morte di fronte alla quale non si è esseri individuali ma numeri di una massa più o meno indistinta. La coscienza o la percezione di questa mutata realtà è ciò che caratterizza e segna profondamente la sopravvivenza del senso tragico, a teatro, nel Novecento. Essa, infatti, avviene soprattutto attraverso la rielaborazione di tragedie classiche: vuoi sotto forma parodistica vuoi sotto forma di riscrittura tout-court. Il caso del processo intentato da Gabriele D'Annunzio contro Eduardo Scarpetta, autore di una parodia della Figlia di Iorio, rappresenta il primo sintomo di una situazione nuova e inedita sulla quale si apre il Novecento. L'Amleto di Petrolini-Bovio è invece il segno dell'avvenuto cambiamento e l'esempio più significativo di tutto quanto accadde dopo. Petrolini, irridendo le `disgrazie' del principe danese, irride tanto la pochezza del dubbio di un uomo di fronte ai tormenti di una società intera, quanto l'abitudine del teatro tradizionale di rappresentare Amleto come l'eroe irraggiungibile di un conflitto immenso. Mentre nella realtà Amleto veniva percepito dal pubblico come un ometto turbato da un dubbio da due soldi: com'è possibile rovinarsi la vita chiedendosi se è lecito uccidere un patrigno se con una bomba aerea o un cannone ben puntato si può eliminare un'intera comunità di patrigni? La parodia shakespeariana di Petrolini va nel solco, assai fecondo del Novecento, aperto da Ubu re di Jarry e perseguito poi da Ionesco nel suo Macbeth e portato alle estreme conseguenze da Beckett con Catastrofe, la più alta tragedia autenticamente novecentesca e, contemporaneamente, la più terribile parodia della tragedia classica. L'altro fenomeno, quello delle riscritture dei classici, si offre come maggiormente interlocutorio nei confronti della tradizione: da Anouilh a Testori, molti autori teatrali del Novecento si sono interrogati sulla possibilità di dare nuove vitalità e attualità al conflitto individuo/entità superiore. Ma, in ogni caso, si tratta di domande e risposte sommamente (quando non esclusivamente) legate alla contemporaneità che le produsse. Analogo rilievo andrebbe fatto a quanti tentarono di riprodurre senza particolari aggiornamenti i meccanismi della tragedia classica (T.S. Eliot); o, ancora, a quanti pensarono di contestualizzare all'interno delle vicende della seconda guerra mondiale il tradizionale conflitto (Sartre o Fabbri). Solo a Samuel Beckett può essere attribuito il merito di aver tentato un superamento consapevole della classicità mediante l'invenzione del `tragicomico', ossia di un effetto contrastante, tragico e comico allo stesso tempo, prodotto dalla rappresentazione di tragedie individuali comicamente piccole (`relative') se riferite alla complessità del mondo.

avanspettacolo
Quando, all'inizio degli anni Trenta, il regime fascista decise di investire denari e forze intellettuali nello sviluppo del cinematografo, ritenuto uno strumento di educazione e di persuasione di massa assai efficace, il vecchio e fortunato varietà subì una trasformazione radicale. Le sale che ospitavano quel genere di spettacoli furono indotte - tramite incentivi fiscali - a privilegiare la programmazione cinematografica, contestualmente la produzione di film (autarchicamente ribattezzati `filmi') fu economicamente favorita purché le pellicole realizzate e saltassero l'italianità, l'eroismo dei militari italiani e la supremazia dell'ideologia fascista. Tuttavia, mai nulla fu fatto per affondare direttamente il varietà, che restava pur sempre lo svago più popolare del Paese. Sicché gli artisti di varietà da un lato concentrarono i loro sforzi economici per allestire spettacoli in tutto e per tutto concorrenziali nei confronti del cinematografo (è il caso della rivista) e dall'altro accettarono il compromesso di vedere ampliato all'interno delle proprie rappresentazioni lo spazio destinato alle proiezioni. Fino a limitarsi a precedere, con un'ora circa di spettacolo, il film che veniva presentato, a tutti gli effetti, quale vera attrazione della serata. Così nacque l'avanspettacolo Avanspettacolo di nome e di fatto: ancora una volta, come nel caso del `caffè concerto', del varietà e della commedia musicale, l'etichetta chiamata a definire un genere della comicità popolare del Novecento offre pedissequamente la descrizione fattuale di ciò che vuole riassumere. Segno che l'interesse della cultura dell'epoca per questi generi di spettacolo era inesistente: nessuno allora si occupò di studiarli, di approfondirne i temi, di valorizzarli né di etichettarli, appunto. I termini `caffè concerto', varietà, avanspettacolo, commedia musicale furono semplicemente inventati dagli impresari per distinguere i loro prodotti dal resto dell'offerta. Ebbene, l'avanspettacolo visse felicemente fra il 1930 e il 1950, sovente sovrastando, nei gusti e nelle spese del pubblico, lo stesso cinematografo che era chiamato a introdurre e servire. Per di più l'avanspettacolo rappresentò l'unica forma d'arte effettivamente organica alla classe sociale entro la quale era nato e a cui era principalmente rivolta: quella composta dagli operai, dagli artigiani e i piccoli commercianti. Forse anche per questa ragione, pur senza diretta consapevolezza intellettuale e politica, l'avanspettacolo risultò essere sostanzialmente luogo di opposizione al regime fascista fin da tempi non sospetti. Su quei palcoscenici, infatti, venivano rappresentati sketch e monologhi basati principalmente su questioni di fame e di contrapposizione fra quanti mangiavano e quanti saltavano i pasti, in ciò vedendo spesso come elemento di discrimine l'aderenza ai dettami sociali e politici del regime. In avanspettacolo si davano due o tre recite al giorno, a seconda della capienza dei teatri e della ricettività della città o del paese in cui la compagnia era ospite. Ogni recita, s'è detto, precedeva la proiezione, ma talvolta, nel caso di compagnie di particolare successo, al termine dell'ultima proiezione, ossia intorno alle dieci di sera, si dava un ultimo spettacolo ridotto alle sole vedette. Si trattava in sostanza di rappresentazioni analoghe a quelle del varietà, con i comici e le ballerine, con i cantanti e i maghi, con gli illusionisti e i contorsionisti. Le compagnie più povere, tuttavia, offrivano solo numeri comici, di ballo e di canto. Dal punto di vista dell'organizzazione economica, il capocomico scritturava gli artisti, allestiva la rappresentazione, ne curava le scene, forniva i costumi alle ballerine e poi vendeva il `prodotto finito' ai gestori dei cinema-teatro. Solo in casi rarissimi succedeva che un comico venisse scritturato direttamente dal gestore della sala. E in genere si trattava di artisti di grandissima fama, capaci da soli di chiamare grandi quantità di pubblico. Questo è il caso, per esempio, dei fratelli De Rege che non hanno mai fatto compagnia capocomicale. In ogni caso i temi trattati dagli sketch e dai monologhi erano semplici e d'ambientazione povera, il rovescio preciso della ricchezza e dell'esotismo esibito senza pudore dal cinematografo. E del resto il cinema i comici d'avanspettacolo lo vedevano a rovescio, da dietro il telo di proiezione. Dormendo e sognando a bocca aperta e a stomaco vuoto

farsa
Forma drammatica di solito breve, a contenuto comico burlesco, di tono popolare. Dal latino farcire e con riferimento alle primitive forme ludiche, in particolare le fabulae atellanae, del teatro romano. Al tardo medioevo francese appartiene l'elaborazione di questa forma drammatica laica che si caratterizza come irruzione profana e goliardica all'interno dell'orizzonte sacro dei Misteri e delle Moralità. Espressione di una drammaturgia festiva legata alle celebrazioni del nascente ceto borghese, la farsa sia in Francia sia in Germania sviluppa secondo una prospettiva parodistica in un breve scenario la situazione di figure tipizzate appartenenti all'universo mercantile e commerciale. Tra le più note La farce de maître Pàthelin e La farsa di Carnevale leggiadra. Rimasta viva nella pratica scenica della goliardia accademica del Quattrocento (la parodia d'ambiente accademico pavese nota come Ianus sacerdos) e nel Cinquecento, nella sperimentazione dialettale comica colta e popolare (le farse piemontesi dell'astigiano Alione, le `farse cavaiole' del napoletano Caracciolo, le farse dei senesi della Congrega dei Rozzi, del padovano Ruzante e i lazzi farseschi della Commedia dell'Arte), la tradizione della farsa arriva fino a Molière - che esordisce a corte nel 1658 con la farsa Il dottore amoroso - e al vaudeville ottocentesco. La farsa è la più diretta eredità della commedia dell'arte e sopravvive fino all'immediato dopoguerra nelle compagnie girovaghe specializzate (volgarmente note come `guitti') che si distinguono per la recitazione enfatica o nei piccoli circhi, in cui gli artisti concludevano lo spettacolo con la `farsa finale', attinta da un repertorio antichissimo e variata quotidianamente per attirare maggiore pubblico. I canovacci delle farse erano generalmente adattamenti di libretti d'opera o della letteratura teatrale, quando non materiale della commedia dell'arte contaminatosi nei secoli con tradizioni popolari successive, come ad esempio quella napoletana, dove l'influenza di artisti come Petito genera il talento di Viviani, Scarpetta e dei De Filippo. Il repertorio proprio della farsa sopravvive nelle compagnie di burattinai mentre l'unico circo che ancora oggi le rappresenti è l'Arena di Valerio Colombaioni, attiva nel Lazio. Efficaci testimonianze delle compagnie di farsa si hanno nelle memorie di Petrolini o nella ricostruzione del teatro dei guitti data da Eduardo nel proprio film Fortunella (1958). Come riferimento di genere comico e popolare è entrata anche nel linguaggio delle avanguardie novecentesche, indicando uno stile più che una formula di genere; in questo senso, farsesco è il teatro di Dario Fo, o figure come quella di Totò che sono assunte, insieme al teatro di varietà e al teatro comico popolare, come elementi di contaminazione del lavoro di Leo de Berardinis.

filodrammatica
Detto anche `teatro amatoriale', in quanto chi vi lavora è comunemente definito un dilettante dell'arte drammatica, che recita cioè per passione, senza proporsi fini di lucro, a un livello non professionale, anche se i termini professionismo e dilettantismo spesso s'intrecciano.Il teatro dilettantesco, dopo le sue diversificate forme storiche di teatro sacro, teatro di corte, teatro di circostanza, teatro pedagogico eccetera, diventa teatro dei filodrammatici, nella sua accezione moderna, verso la fine del Settecento, quando gruppi di dilettanti si organizzano in modo più o meno stabile, nelle due forme giunte fino a noi, cioè come filodrammatica `laica' e filodrammatica `parrocchiale', con una benemerita appendice nell'ambito del recupero sociale, con psicologi ed animatori che si avvalgono del teatro amatoriale come strumento di socializzazione e come terapia in comprensori carcerari e comunità di tossicodipendenti o di portatori di handicap. Oggi, casalinghe, ragionieri, artigiani, impiegati, professionisti, in una società di esasperata massificazione, trovano il tempo, dopo una giornata di lavoro, di dedicarsi a un appassionato lavoro di prove, di ricerca, di sperimentazione, in ciò poco differenziandosi dai professionisti. In realtà non esistono differenze sul piano etico. Il filodrammatico dedica il suo tempo libero al teatro come scelta culturale, come autorealizzazione vocazionale e morale; il professionista consacra tutta la sua vita al teatro con le stesse motivazioni, ma ricavandone la necessaria remunerazione. Ma anche questa è una fragile classificazione. la cosiddetta multimedialità spinge oggi molti attori professionisti ad attività che poco hanno a che vedere con la totale consacrazione al teatro (spot pubblicitari, doppiaggi, infime prestazioni merceologiche), e il teatro rimane una marginale e spesso oscura gratificazione morale. Tanto teatro di poesia, parrocchiale, oratoriale o laico, nasce invece da una totalizzante passione irruenta e disinteressata, peraltro senza sovvenzioni e finaziamenti. Filodrammatico, insomma.

musical
Se dobbiamo semplificare al massimo, il musical è uno spettacolo composto di canto, danza e recitazione e interpretato da attori, cantanti e ballerini: talvolta le tre qualifiche riunite in una sola persona, talvolta ad indicare tre gruppi diversi; musical è un aggettivo. È, quando definisce uno spettacolo, l'abbreviazione di un musical comedy (commedia musicale) e questo sarebbe il modo corretto di indicarlo, vuoi in inglese vuoi in italiano. Ma la parola musical, ormai, si è spinta oltre e viene usata per indicare il musical drama (dramma musicale), come lo splendido The Cradle Will Rock di Marc Blitzstein, per esempio; oppure qualcosa che andrebbe più correttamente definito come operetta, come Rosalie di Cole Porter. In tempi più recenti la definizione musical è passata a indicare anche la cosidetta opera rock, come Jesus Christ Superstar, e altri altri succedanei sia di Andrew Lloyd Webber che della copppia Boublil & Schönberg, sicché il purista del musical (o almeno della coretta definizione di musical) rabbrividisce quando sente citare le opere di questi autori come `unici' esempi di musical Comunque, ormai, la definizione si è abbastanza allargata alle varie forme di spettacolo che sono all'origine del musical stesso. Se è corretto affermare che l'origine storica del musical è quel mitico The Black Crook andato in scena il 12 settembre 1866 al Niblo's Garden Theatre (per la cronaca lo spettacolo durava cinque ore e mezza!) e nata per caso Bernstein e Marc Blitzstein dall'unione fra una compagnia di ballo e canto importata dall'Europa e rimasta senza teatro, con una compagnia di prosa alle prese con una messa in scena assai più costosa del previsto, bisogna comunque e continuamente ricordare le origini di spettacolo popolare che ha il musical E qui popolare non ha affatto la connotazione di `volgare' o `basso'. No, popolare nel senso di rivolgersi alla massa del pubblico, a un pubblico molto variegato che doveva poter seguire lo spettacolo come il vaudeville (corrispondente al nostro varietà). Proprio negli Usa si riuniva un vasto, seppure non ricco di denaro, pubblico potenziale formato di gente che aveva in comune una grande caratteristica: appartenendo alle etnie più diverse, essendo formato di immigrati in Usa, facilmente non parlava bene (o affatto) e non intendeva bene (o affatto) la lingua franca della nazione: cioè l'inglese. Il musical dunque, supera lo spezzettamento del varietà, lega il pubblico all'interesse per una storia (che traspare chiaramente nello spettacolo) e lo affascina con lo stesso tipo di emozione circense che lo aveva colpito nel vaudeville: la bravura degli atleti, la grazia delle ballerine, la capacità nel canto, e così via. E proprio come nell'Europa del melodramma l'entusiasmo del pubblico e la generosità dei mecenati avevano concorso a un moltiplicarsi di opere (di Opere), anche a New York, a Broadway, nasce una tradizione che si diffonde a macchia d'olio, che porterà gli spettacoli fuori dai confini di Manhattan e in giro per le grandi e le piccole città degli Usa; e già negli anni '20 certi spettacoli di Broadway cominciano a raggiungere i teatri del West End a Londra e magari, ma più tardi, altre città in Europa. Ancora più tardi, il musical, figlio e nipote di forme teatrali nate in Europa, ai paesi non anglofoni in Europa sta tornando; vuoi tradotto nelle rispettive lingue, vuoi `sopratitolato' (come l'opera lirica al Metropolitan di New York) vuoi affidandosi, come alle origini del genere, a quella capacità stessa dello spettacolo di rendersi comprensibile al pubblico per la sua forma peculiare. Inutile dire che la diffusione del musical attraverso le versioni che ne ha fornito il cinema di Holliywood, ha contribuito alla maggiore conoscenza e popolarità di questo genere. Una distinzione comunque va fatta quando si parla di musical: è quella tra il classico backstage musical (musical fra o dietro le quinte), un tipo di spettacolo che racconta se stesso mettendo in scena la messa in scena di uno spettacolo o qualunque altro pretesto affine: vedi l'esempio altissimo di The Band Wagon (Spettacolo di varietà si chiamava il film che ne fu tratto nel 1953) e il musical di tipo narrativo, quando questa peculiare forma di spettacolo viene scelta per raccontare o tradurre una storia, che può essere tratta da un romanzo, un ciclo storico o addirittura una commedia, come, per esempio Man of La Mancha, Camelot o Hello, Dolly!

cabaret
Il genere teatrale che in Italia si diffuse a partire dagli anni '50 con il nome di cabaret ha una genesi diretta nel cabaret francese e nel Kabarett tedesco, fenomeni teatrali minoritari e assai particolari che si sono evoluti in forme affatto diverse fin dagli ultimi decenni dell'Ottocento. In entrambi i casi il nome, almeno in origine, definiva strettamente i luoghi, piccoli ed esclusivi, nei quali avevano luogo spettacoli trasgressivi o comunque Locandina del locale parigino Chat Noir anticonformisti. Il cabaret francese più celebre fu lo `Chat noir' di Parigi, un piccolo locale che ebbe molto successo fino alla fine del secolo scorso e nel quale si esibivano artisti d'avanguardia, comici e chansonnier. La fortuna così ampia e inattesa di questo locale ne snaturò alla fine la portata alternativa, fino a trasformarlo in un luogo di rappresentazioni comiche e musicali piuttosto commerciali. Stessa sorte toccò a tutti quei locali che, a imitazione dello `Chat noir', erano nati a Parigi a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento. In Francia l'antica tradizione corrosiva e minoritaria del cabaret riprese vigore dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando il circolo degli intellettuali impegnati, variamente legati a Jean-Paul Sartre e all'esistenzialismo, cominciò a frequentare nel quartiere di Saint-Germain-des-Prés i locali nei quali si esibivano artisti come Edith Piaf, Juliette Gréco, Yves Montand. Il ruolo artistico e sociale del Kabarett in Germania fu affatto diverso. Minoritario e trasgressivo, questo genere di spettacolo fu al tempo stesso palestra di grandi talenti teatrali (da Max Reinhardt a Bertolt Brecht) e luogo di grande attivismo politico. Il Kabarett, infatti, rappresentò il più rilevante luogo di sviluppo di attività antinaziste, almeno fino ai tempi immediatamente successivi alla presa del potere da parte di Hitler che, una volta al vertice del Reich, vietò tale genere di rappresentazioni. D'altra parte, gli intellettuali ebrei, comunisti e omosessuali furono i più assidui frequentatori dei Kabarett di Monaco e Berlino: quei locali piccoli e fumosi venivano considerati come territori liberi, nei quali esprimere disagi sociali e dissensi politici. Karl Valentin e Kurt Tucholsky furono i due artisti di maggior rilievo di quel mondo, a cavallo tra l'inizio del Novecento e il nazismo. Comico puro dalla vena assurda, Valentin viene considerato sovente il Petrolini tedesco, anche per la sua spiccata vena parodistica e per quel suo dialetto bavarese che ne rendeva inconfondibili le caratterizzazioni: nella sua orchestrina, sul finire degli anni '10, suonava il clarinetto il giovane Brecht. Il caso di Tucholsky, invece, è più complesso da mettere in relazione con altri fenomeni simili dell'epoca: artista corrivo, sempre al limite della volgarità, egli era un anarchico non solo politicamente ma anche in termini strettamente teatrali; così finì per mescolare generi e suggestioni, prediligendo ogni sorta di travestitismo scenico. In Italia non è mai esistita una forma di spettacolo apertamente e consapevolmente antifascista, e il cosiddetto `teatro politico' del dopoguerra ha seguito altre strade rispetto a quelle deliberatamente minoritarie del cabaret francese e del Kabarett tedesco. Solo a partire dagli anni '50, specie in alcuni piccoli locali milanesi, ha preso corpo una piccola tradizione cabarettistica esteticamente trasgressiva e politicamente impegnata. Nella prefazione al volume La patria che ci è data (1974), che raccoglie testi stravaganti scritti apposta per il cabaret, Umberto Simonetta nota: «Pur non vantando le tradizioni del grande Kabarett mitteleuropeo o delle `caves' parigine, il cabaret italiano, saldati i debiti con l'Espressionismo, può godere di dignitoso credito». Pressoché archiviati gli spettacoli di rivista e varietà negli anni '60, soppiantati dalle commedie musicali di Garinei e Giovannini o da rassegne di strip-tease, o dal teatro dialettale (non a caso i grandi comici tornano alle radici paesane: Nino Taranto rappresenta commedie napoletane di Viviani, Dapporto ripropone i classici in genovese di Gilberto Govi, Macario si fa scrivere da Amendola e Corbucci intrecci piemontesi con titolo in rima), la comicità fatta di critica e satira social-politica imbocca la strada di scantinati o localini con pedana, due-quattro riflettori, pianoforte in un angolo, e maccheroncini fumanti (e gratis) a mezzanotte, spesso serviti dagli stessi attori, per un pubblico che Simonetta descrive forse con eccessiva cattiveria: «Mezzecalzette con il bicchiere di whisky stretto nella destra e chiavi della macchina sinistramente tintinnanti nella sinistra, con ridicolo sbandieramento del relativo portachiavi tutto d'oro: mercanti di provincia, fallofore, attori sparlanti, belle signore, bande di architetti e di funzionari Rai». Comunque, anticipato da alcuni spettacoli teatrali `da camera' di successo (Dito nell'occhio e Sani da legare di e con Parenti-Fo-Durano; Carnet de notes dei Gobbi, cioè Caprioli-Bonucci-Salce e poi Franca Valeri), il cabaret nasce a Milano, nel 1963, al Derby club, locale di viale Monte Rosa (sulla strada per l'ippodromo di San Siro, ed ereditandone nel tempo i frequentatori, nel bene e nel male: ecco spiegato il nome sull'insegna) grazie al ristoratore Bongiovanni e al jazzista Intra, cui si affianca subito Franco Nebbia, straordinario pianista-entertainer: un `classico' il suo tango con versi di corrive citazioni latine, da `alea iacta est' a `mutatis mutandis'. Con Intra e Nebbia, un primo manipolo di talenti: il musicista Gino Negri e le attrici Liliana Zoboli e Velia Mantegazza, la giovane `cantante della mala' Ornella Vanoni e Enzo Jannacci. Nel settembre 1964 si trasloca e si apre il Nebbia club, con una compagnia `stabile' composta da Duilio Del Prete, Liù Bosisio, Sandro Massimini, Lino Robi attore comico dalla statura ridotta. Ospiti del Nebbia club, che chiuse nel '68 e che aveva privilegiato un taglio più politico ed esclusivo rispetto al Derby, furono Carmelo Bene, Maria Monti, Piera Degli Esposti, Giorgio Gaber, Mariangela Melato. Il Derby continua, e in pedana sfilano il veneziano Lino Toffolo, il piemontese Felice Andreasi e il pugliese Toni Santagata, Cochi e Renato (“La vita l'è bela”), Giorgio Porcaro (inventore del dialetto pugliese-meneghino «milanès a cient pe' cient», che sarebbe stato ereditato e più ampiamente divulgato da Diego Abatantuono). Nel 1970-71, nel centro storico della città, si apre il Refettorio, gestito da Roberto Brivio, uno dei Gufi, che cerca di contrapporsi, a volte con programmazioni notevoli (I quattro moschettieri con Nunzio Filogamo) all'ormai lanciatissimo locale di viale Monte Rosa. Dopo Milano, Roma. Nel 1965 Maurizio Costanzo, fecondo autore di commedie e monologhi comici, apre nella capitale, in via della Vite, il Cab 37; scopre e lancia Paolo Villaggio, Gianfranco D'Angelo, Pippo Franco, il cantastorie Silvano Spadaccino. Costanzo con il suo gruppo si trasferì poi al Sette per otto, in via dei Panieri al 56, appunto. E qui Costanzo fece debuttare un suo coinquilino di via de' Giubbonari, «un giovanotto alto e magro che recitava e cantava accompagnandosi alla chitarra, con un talento di showman di cui molti poi vanteranno la scoperta: era Proietti Luigi detto Gigi» (testimonianza di Enrico Vaime, da Il varietà è morto, 1998). A Roma, nel 1965, nasce con fortuna Il Bagaglino, guidato da Mario Castellacci e Pierfrancesco Pingitore, con Pippo Franco, Leo Gullotta e Oreste Lionello (la voce italiana di Woody Allen). La compagnia si è trasferita dal 1974 al salone Margherita. Spettacoli di vena qualunquista e reazionaria, sempre ben accolti dal cosiddetto `generone' romano; da anni vengono poi trasposti in tv, con contorno di sosia di uomini politici da sbeffeggiare. In questi anni fu proprio dalla differenza di contenuti tra i locali milanesi e quelli romani che nacque la distinzione, abbastanza vicina al vero, che porterà a parlare di cabaret di sinistra a Milano e cabaret di destra a Roma. Protagonisti di spettacoli di cabaret negli anni 1964-69 furono i Gufi, quartetto milanese in calzamaglia nera composto da Roberto Brivio, Gianni Magni, Lino Patruno, Nanni Svampa. Esordio in marzo-aprile 1964 al Captain Kidd di Milano, stagioni al Derby di Milano e al Los Amigos di Torino, poi il Teatrino dei Gufi si sposta in palcoscenico con alcuni spettacoli di successo: Non spingete scappiamo anche noi e Non so, non ho visto, se c'ero dormivo di Gigi Lunari. Tra gli autori di testi per cabaret, Silvano Ambrogi, Sandro Bajini, Roberto Mazzucco, Enrico Vaime, Saverio Vollaro. Autori-interpreti: Maurizio Micheli, Enzo Robutti, Walter Valdi (ex avvocato di giorno e cabarettista di notte; piccolo, e rotondetto, con occhiali spessi un dito, canta e recita storie del milieu milanese: Il palo della banda dell'Ortiga; tra i suoi aforismi: «La torre di Pisa... E se avesse ragione lei?»). A Milano ribalta affermata del cabaret è, dal 1986, lo Zelig di viale Monza, che sotto la guida artistica di Gino e Michele e organizzativa di Giancarlo Bozzo ha rivelato Paolo Rossi, Silvio Orlando, Claudio Bisio, Gene Gnocchi, Francesco Salvi, Sabina Guzzanti, Elio e le storie tese, Caterina Sylos Labini e decine di altri comici, avviandone o accelerandone il successo multimediale (tv, cinema, musica e teatro). Ma da Zelig sono passati in questi anni centinaia di comici, favoriti dal fatto che, a differenza di altri cabaret che lo hanno preceduto, il locale ha una programmazione che viene cambiata ogni settimana. A Zelig hanno lavorato anche comici già affermati come Zuzzurro e Gaspare, Giorgio Faletti, Enzo Iacchetti, Carlo Pistarino, Sergio Vastano, Massimo Boldi, Teo Teocoli, Gianni Cajafa, Nanni Svampa, Enzo Jannacci (che a sua volta aprirà per pochi anni, sempre a Milano, il Bolgia umana) e attori o musicisti apparentemente lontani dal cabaret come Marco Paolini, il duo Robledo-Delbono, Roberto Vecchioni, Rossana Casale e il suo gruppo jazz. Interprete poi di testi in stile cabaret, Beppe Grillo, che però ha svolto la sua carriera prima sui teleschermi e, quando la satira è diventata rovente, nei palasport e nelle piazze. Anche Roberto Benigni esordì nel cabaret, con Cioni Mario di Gaspare fu Giulia (1976). Da ricordare poi due spettacoli di cabaret rappresentati in teatro: Come siam bravi quaggiù (1960) e Resta così o sistema solare (1961) di Vittorio Franceschi e Sandro Bajini, con Franceschi e Massimo De Vita. E, a proposito di cabaret ospitato su un palcoscenico teatrale, va menzionato il Ciak di Milano, un cinema di periferia che, con geniale intuizione, il grande impresario Leo Wächter (portò per primo in Italia i Beatles e Sinatra, Armstrong e Moiseev, il Circo di Pechino e il coro dell'Armata rossa) trasformò nel 1977 in teatro `di cabaret', ospitando, davanti a platee affollate di giovani, tutti i `nuovi comici' accanto a Franca Rame e al Circo immaginario di Victoria Chaplin. Dalla stagione 1997-98 il locale ha come direttore artistico Maurizio Costanzo. Il cabaret ha ottenuto il riconoscimento ministeriale alla pari di altre forme teatrali soltanto nel 1975.

ricerca teatrale
La ricerca teatrale del secondo dopoguerra riprende l'istanza che già aveva caratterizzato le avanguardie storiche della prima metà del secolo, ovvero, aldilà delle differenti opzioni poetiche, rigetta la concezione ottocentesca della scena al servizio di un testo scritto, e dunque di un'arte al servizio di un'altra, per affermare l'autonomia della scena rispetto a qualunque messaggio elaborato altrove. In questa prospettiva l'autore teatrale è colui che compone l'evento scenico, sia esso derivato o meno da un testo preesistente. Spesso è difficile decidere se una personalità, poniamo un regista, appartenga all'uno o all'altro fronte, né aiutano molto le relative dichiarazioni di poetica, visto che i creatori hanno la tendenza a esprimersi in termini teorici secondo schemi già consolidati, più per giustificarsi che per lanciare nuove proposte. Stabilito dunque che la ricerca autentica si svolge in scena, si possono distinguere tre questioni principali: la composizione scenica, l'organizzazione dello spazio e la recitazione (l'attore). Ovviamente si tratta di questioni strettamente connesse tra loro, distinguibili soltanto per comodità di esposizione. L'istituzione registica, fondamentale anche nel teatro `tradizionalmente' moderno, ha espresso fino dall'inizio del XX secolo alcuni degli esponenti più significativi della ricerca teatrale. Personalità come Vselovod E. Mejerchol'd o Jacques Copeau, pur senza disconoscere l'importanza del testo drammaturgico, hanno relativizzato l'importanza di quest'ultimo, procedendo a una composizione scenica in nuovi spazi non teatrali (aperti, per esempio in campagna, o chiusi, come fabbriche ecc.), alimentata da un intenso lavoro di allenamento e improvvisazione degli attori, da elevare alla nuova funzione di co-autori. Ma la vera svolta è quella che avviene nel nome diAntonin Artaud Antonin Artaud. Questi, benché riconosciuto soltanto a posteriori come il nume tutelare della ricerca del secondo dopoguerra, esprime nei propri scritti e nelle proprie sperimentazioni sceniche l'istanza più radicale. Il suo saggio Il teatro e il suo doppio indica in tale doppio, cioè la vita, e nel suo `rafforzamento' (apparentabile alla volontà di potenza nietzschiana) il vero teatro, un teatro che non rappresenta ma che si fa azione, fino a produrre un cambiamento organico tanto nell'attore quanto nello spettatore. Questo cambiamento non è paragonabile a quello prodotto da una medicina o da una terapia psicologica su un corpo o una mente malati, ma a un disvelamento della realtà, uno stato che l'autore francese definisce come una consapevolezza della `crudeltà', suprema legge umana. Il Living Theatre viene fondato da Julian Beck e Judith Malina alla fine degli anni Quaranta, come il Piccolo Teatro di Grassi e Strehler. Mentre il secondo può essere considerato forse il massimo teatro di rappresentazione e interpretazione del secondo dopoguerra, il primo, sia pure inizialmente proponendo testi classici o contemporanei, rilancia la centralità della scena e cerca di ritrovare, se necessario anche attraverso la provocazione e il coinvolgimento fisico del pubblico, il potere di scuotere. Con il Living l'atto teatrale esce dalla dimensione dell'ascolto per entrare in quella dell'azione (anarchica e non-violenta nel caso specifico). Così come succederà negli anni Sessanta a Peter Brook Peter Brook, il Living scoprirà Artaud soltanto dopo che alcuni dei propri memorabili spettacoli avranno suggerito ad alcuni critici e spettatori una coincidenza tra la sua poetica e l'istanza dell'autore francese. E così una teoria, ma soprattutto una visione, formulata negli anni Trenta è diventata in tutto il mondo il sigillo del rinnovamento, la formula capace di riassumere una nuova funzione del teatro e di prefigurare una diversa responsabilità artistica ed etica dei suoi autori. Dalla fine degli anni Cinquanta, ma soprattutto nei Sessanta, in tutto il mondo prende corpo un movimento di ricerca teatrale disomogeneo nelle poetiche ma basato sull'assunto comune dell'azione (artistica o politica, oppure artistica e politica) che sostituisce la rappresentazione e l'ascolto, e del teatro che divorzia dallo spettacolo. Questo nuovo teatro non è più inteso come un'attività vicaria della lettura e della didattica, bensì come la meditazione condivisa (l'espressione è di Brook) di una comunità provvisoria riunita attorno a un oggetto artistico che spiazza i clichè teatrali e le abitudini percettive. Dagli Usa (si pensi a Allan Kaprow, a John Cage o Merce Cunningham e via via al movimento anche drammaturgico che giunge fino a oggi e che ha in Robert Wilson un esponente universalmente riconosciuto) alla Polonia (dove si segnala Tadeusz Kantor, attivo anch'egli fino dagli anni Quaranta, uno dei maggiori autori teatrali del dopoguerra), dal Giappone (dove oltre alla `danza delle tenebre' Butoh si registra un ricco fermento che va dal teatro d'artista - si pensi almeno a Shuji Terayama e a Tadashi Suzuki - all'agit-prop) fino alla Gran Bretagna, alla Francia e la Germania, dove fioriscono molti gruppi teatrali interessanti che il lettore trova descritti nelle apposite voci, all'Italia naturalmente, si sperimenta un teatro basato su materiali, tecniche e funzioni diverse da quelle che caratterizzano il modello occidentale sette-ottocentesco, il cosiddetto `teatro borghese'. Nel nostro paese sono innanzitutto alcuni registi come A. Trionfo, per citare solo uno dei nomi più significativi, poi alcuni attori come C. Bene, L. De Berardinis e C. Cecchi, o degli artisti visivi come C. Remondi e R. Caporossi, M. Ricci e G. Nanni, a inaugurare, in aperta polemica con il Piccolo Teatro di Milano, i più significativi filoni di ricerca. A essi si può affiancare Dario Fo per l'aspetto politico e di controinformazione, anche se il drammaturgo-attore lombardo è terribilmente sopravvalutato per quanto riguarda la scrittura. Per merito di queste personalità si stabilisce a un diverso rapporto con i testi classici e moderni, non più `letti sulla scena' ma vagliati con una sensibilità contemporanea, la stessa che poi altri registi come L. Ronconi, M. Castri o F. Tiezzi, per esempio, declineranno anche nelle concezioni scenografiche o nell'uso di spazi non tradizionali. Mentre gli attori-autori sviluppano, in base alle rispettive sensibilità e coordinate culturali, non solo una rivisitazione ricca di sorprese del repertorio (basti pensare a come diversamente tra loro hanno affrontato Shakespeare), ma anche un'arte attorica originale, che conta esponenti di rilievo anche nelle generazioni successive (basterà fare il nome di Sandro Lombardi). E infine si pensi al teatro creato dagli autori che privilegiano l'aspetto visivo, a sua volta concretizzatosi in esperienze il cui valore è oggi riconosciuto in tutto il mondo, per esempio quelle che fanno capo a G. Barberio Corsetti o alla Socìetas Raffaello Sanzio. Certo è da rimpiangere che la storia non abbia consentito un confronto più stretto e un sincretismo fra i differenti aspetti della ricerca, mentre si assiste a un deciso revival dell'istituzione spettacolistica pubblica e privata, nonché della drammaturgia. Purtroppo ciò avviene nel segno del ritorno alla rappresentazione e a un teatro fatto di `scrittori', `lettori' e `critici' di messaggi culturali, più gradito a un pubblico abitudinario e più consono agli orientamenti delle attuali classi dirigenti. Tant'è che un grande maestro come J.Grotowski si è da tempo ritirato dalla scena per darsi alla ricerca pura, in una sorta di esilio dorato e tuttavia non privo di riscontri per coloro che della scena continuano a occuparsi. Alle istituzioni orientate in senso didattico e commerciale e a una drammaturgia intesa nuovamente come opera che i professionisti della scena sono chiamati a tradurre fedelmente sono costretti ad adeguarsi gli autori della ricerca. Sempre più spesso accade che questi accettino di lavorare su commissione, ma con modi e tempi che non appartengono loro bensì alle strutture tradizionali, emendando il vecchio teatro con qualche `novità', oppure inserendosi con le proprie opere negli interstizi dei normali cartelloni, a significare così una marginalità (per quanto lucrosa) e un alibi dei grandi teatri. Negli altri paesi la situazione è simile, anche se forse meno intricata. Sembra infatti che aldilà degli incroci sempre più frequenti fra autori della ricerca e istituzioni maggiori, nella cultura e nel gusto di civiltà teatrali come quella francese o nordamericana sia più netta e in qualche modo più serena la distinzione tra un teatro-che-rappresenta-i-testi e un'arte scenica autonoma, che sviluppa la ricerca attraverso forme e linguaggi del teatro inteso come forma di vita e azione nella vita. Una controprova della dinamica viziata è costituita dalla quasi totale assenza delle donne da ruoli di primo piano in questo panorama, assenza dovuta non a una mancanza di talenti ma, appunto, alla logica generale che domina i meccanismi di produzione e dunque di selezione, logica prevalentemente maschile. Il secolo sembra chiudersi così con una strana contraddizione secondo la quale a fronte di un immenso potenziale di creatività artistica si risponde con una selezione che privilegia l'adattamento e il compromesso con il sistema della rappresentazione. Ma la lotta continua, con esiti alterni, e della vicenda non s'intravvede la fine.

teatro dell' assurdo
La definizione ha assunto una speciale notorietà dopo essere divenuta il titolo di un fortunato volume di Martin Esslin, pubblicato nel 1961 (edizione italiana 1975), che indicava in Ionesco, Adamov, Beckett e, ancora, in Finale di partita di Samuel BeckettGenet, Albee e Pinter i campioni di un filone dominato dal tema dell'assurdità del vivere contemporaneo. Trasformata in un'etichetta, la definizione ebbe successo soprattutto per il suo carattere ambiguo, che serviva a dar nome a una sensibilità comune, nel corso degli anni '50, a un crescente numero di drammaturghi. Nessuno degli autori in questione accettò mai di rientrare nell'ambito di un gruppo o di una scuola, ma l'etichetta venne ugualmente applicata nel campo della critica e del giornalismo teatrale, fino a diventare una categoria interpretativa. A teatro si può parlare di `assurdo' riferendosi al valore linguistico più corrente del termine: qualcosa che è contrario alla razionalità, al senso comune e all'evidenza. Di questo `assurdo' la storia dello spettacolo offre costanti esempi, poiché si tratta di uno dei principali meccanismi dell'effetto comico. Lo si trova nella commedia plautina, nelle situazioni della Commedia dell'Arte, nelle serate del circo ottocentesco, ed è sommamente `assurda' la patafisica di Alfred Jarry, nonché l'antipsicologia del suo Padre Ubu. Si parla invece di `assurdo' in un senso più specifico riferendosi all'elaborazione che ne dà la filosofia esistenzialista (si vedano le considerazioni di Jean-Paul Sartre negli anni '30 e il riflesso che più tardi ne offre Albert Camus nei romanzi, nel teatro e nella saggistica). Questo orizzonte di pensiero influenza la crescita di un gruppo di drammaturghi di prevalente lingua francese, che potrebbe coinvolgere anche Tardieu, Vian e, più tardi, Arrabal o Pinget. Quando, all'inizio degli anni '50, si esaurisce la spinta politica dell'immediato dopoguerra, e le trasformazioni delle classi sociali e il processo di decolonizzazione alterano il quadro dei valori costituiti, nei drammaturghi più sensibili le formule della mimesi realistica perdono rapidamente significato, e la realtà espressa nei loro lavori diventa illeggibile secondo schemi tradizionali, e quindi `assurda'. È un percorso che si può immaginare rappresentato e delimitato da testi come La cantatrice calva di Ionesco (1950) e Aspettando Godot di Beckett (1953), fino a Terra di nessuno di Pinter (1975). Esistono tra i lavori di questi autori e di quelli a loro associati delle linee di convergenza: in primo luogo un uso apparentemente illogico e non comunicativo del linguaggio. I personaggi che lo adottano sembrano vivere in situazioni astoriche, sciolte da precisi riferimenti geografici e vincoli temporali. Essi non sanno esprimere una direzione di vita poiché sfugge loro il senso dell'esistenza, fatto che li pone in una situazione di immobilità. Il movimento drammatico, nei testi di cui sono protagonisti, non ha ragione d'essere. Ognuno degli autori citati utilizza tuttavia una diversa strategia dell'assurdo, da quella nichilista che azzera e deride i significati del testo (Ionesco) a quella strutturale, che esprime una disintegrazione delle relazioni interpersonali (Beckett), fino a quella verbale in cui il linguaggio e i suoi vuoti creano da soli effetti di incoerenza logica (Pinter). Il tempo ha fatto il proprio dovere, restituendo oggi singolarità a ciò che una certa prospettiva storica tendeva, negli anni '60, a omologare. Così è stata ridimensionata la scrittura di Ionesco, restituito a un più congeniale ruolo di scandalista e parodista brillante, acuto rivelatore della fragilità del linguaggio umano. Beckett si è meritato invece il titolo di grande e ostinato cantore della tragicommedia dell'uomo del Novecento ("niente è più buffo dell'infelicità" dice un personaggio di Finale di partita) e della sua totale perdita della speranza. Dopo aver esercitato l'orecchio nel catturare l'aggressività della parola, Pinter ha smascherato il ruolo politico del linguaggio, appoggiandosi sempre più spesso a istanze civili. Genet - lo ha confessato candidamente lo stesso Esslin - è entrato nel gruppo degli autori dell'assurdo per ragioni strettamente editoriali: un autore allora così scandaloso avrebbe giovato alle vendite del volume. Accanto alle istanze politiche di matrice brechtiana, a quelle del realismo psicologico e dello sperimentalismo linguistico, le istanze del teatro dell'assurdo hanno rappresentato per un quarto di secolo una delle grandi tentazioni del teatro del Novecento.

teatro epico
Preceduto dalle esperienze di Piscator e Mejerchol'd, il teatro epico venne elaborato da Bertolt Brecht, che usò il termine per indicare un sistema estetico di messa in scena che ha come obiettivo primario produrre conoscenza attraverso la narrazione critica di fatti e situazioni, così da suscitare attraverso il teatro una trasformazione sociopolitica della realtà. Il teatro epico come forma teatrale si contrappone alla teoria aristotelica Bertolt Brecht dell'identificazione mimetica e della catarsi, su cui si fondava il naturalismo teatrale coevo a Brecht; rifiuta l'immedesimazione e l'adesione irrazionale al punto di vista illusionistico della scena o del personaggio, sia dell'attore sia dello spettatore, e intende al contrario produrre un effetto di distanziazione (effetto di straniamento) da ciò che la scena `mostra' attraverso "uno stile di rappresentazione quanto più possibile freddo, classico, razionale", "facendo appello all'intelligenza" piuttosto che al sentimento. Modello elementare di questo teatro che `racconta' e non incarna è "la scena di strada", in cui i testimoni di un incidente narrano come si è svolto. Divenuto noto in tutto il mondo grazie alle tournée del Berliner Ensemble, in Italia il teatro epico ha influenzato, per la sua concezione etico-politica del teatro e per la poetica dello straniamento, l'esperienza della regia critica (Strehler, Castri, ecc.), dell'animazione (Scabia) e della sperimentazione (Fo e il teatro politico degli anni Settanta).

teatro laboratorio / workshop
Luogo e condizione concreta di ricerca teatrale legata alla formazione etico-pedagogica dell'attore e alla esplorazione dell'identità espressiva di un gruppo in situazioni non necessariamente produttive, la pratica del laboratorio o workshop si diffonde nel teatro occidentale di sperimentazione a partire dalla fine degli anni '60, con riferimento al lavoro Grotowski artistico e pedagogico di Grotowski e di Barba. Storicamente l'idea del laboratorio nasce con la fondazione degli Studi del Teatro d'Arte di Mosca di Stanislavskij, dove lavorano tra gli altri Vachtangov e Mejerchol'd. Presente anche nel progetto di rinnovamento teatrale tentato da Copeau al Vieux-Colombier, e in particolare con la fondazione di una comunità teatrale in Borgogna, il laboratorio si configura nel pensiero di questi grandi maestri del Novecento come la condizione necessaria alla rifondazione etico-antropologica del teatro, attraverso una messa a nudo e una ridefinizione del lavoro dell'uomo-attore. Nell'opera teatrale e parateatrale di Grotowski il laboratorio radicalizza la sua identità di luogo separato, quasi rituale, dove il performer è messo nelle condizioni di compiere un processo di autorivelazione totale, oltre la maschera delle consuetudini sociali o interpretative. Nel lavoro sul training dell'Odin Teatret e in quello più complessivo dentro all'Ista, Barba sviluppa l'istanza laboratoriale di Grotowski ed elabora una concezione del teatro stesso in termini di laboratorio di gruppo, dove l'autodisciplina e l'autoformazione permanente divengono specifiche componenenti della ricerca teatrale. Eugenio Barba Luogo insieme separato e aperto, dove è possibile compiere un incontro con se stessi e nello stesso tempo istituire relazioni con l'altro (uomini, ambiente, cultura, tradizioni, ecc.), il workshop costituisce anche l'orizzonte metodologico e teorico della `animazione' e dei processi di formazione di natura espressiva, festiva, sociale che si riferiscono al teatro come strumento e modello di elaborazione dell'esperienza. Dentro al laboratorio il teatro incontra la scuola, il carcere, il disagio fisico e psichico, individuale e sociale, permettendo, nella sua dimensione protetta e ludica, ai soggetti coinvolti di dare forma concreta e simbolica alla propria esperienza. Interno dapprima alla storia dei gruppi teatrali e dei Centri di ricerca teatrale, oggi il laboratorio teatrale è considerato elemento strutturale non solo della ricerca e della pedagogia teatrale, ma modello di intervento formativo per ogni approccio che privilegia la dimensione del corpo, della relazione e del linguaggio simbolico.

teatro naturalista
Emile Zola Movimento centrale dell'arte non solo teatrale della seconda metà dell'Ottocento, il naturalismo ha anche a teatro in Emile Zola il suo maggiore teorico (Il naturalismo a teatro, 1881). Mosso dal presupposto di derivazione realista che la verità scenica è il risultato di un processo di mimesi della vita che cancella il diaframma fra rappresentazione della realtà e realtà stessa, il teatro naturalista si oppone al `teatro di convenzione', della piéce bien fait, costruito su intrighi rocamboleschi, e propugna la poetica della tranche de vie, ovvero della presenza fisica-concreta della corporeità materiale della vita sulla scena, e della quarta parete, ovvero del palcoscenico come luogo. In una nuova drammaturgia e nella fondazione dell'arte della regia si realizza il verbo del naturalismo scenico. Il dramma naturalista, a cui nonostante le avanguardie fa ancora riferimento la produzione drammatica contemporanea, elimina ogni elemento d'effetto spettacolare e costruisce la partitura degli eventi seguendo con verosimiglianza i microconflitti che si nacondono nei rapporti interpersonali della società borghese e dei suoi valori morali. Lo stesso spazio scenico è lo spazio chiuso e autosufficiente del salotto borghese, nel quale il pubblico osserva la vita reale come attraverso una `quarta parete' a lui trasparente, ma opaca per l'attore. Nell'universo desacralizzato del dramma naturalista il personaggio consegue quel profilo moderno che lo definisce come il risultato delle azioni e delle circostanze piuttosto che di un carattere o di una psicologia definita. I corvi (1875) del francese Henry Becque venne celebrato come il primo dramma naturalista, ma i risultati maggiori la poetica naturalista li consegue nelle opere di alcuni autori: Casa di bambola (1879) di Isben, Il padre (1887) e La signorina Julie (1888) di Strindberg, Tessitori (1892) di Hauptmann, Amoretto (1894) di Schnitzler, Candida (1895) di Shaw, per il verismo in Italia Cavalleria rusticana (1884) di Verga, Tristi amori (1887) e Come le foglie (1900) di Giacosa, L'albergo dei poveri (1902) di Gor'kij e infine Il gabbiano (1896), Zio Vanja (1897), Tre sorelle (1901), Il giardino dei ciliegi (1904) di Cechov, l'autore nel quale naturalismo e simbolismo si fondono con gli esiti più elevati. La drammaturgia naturalista fu anche il luogo di sperimentazione per una nuova modalità di messa in scena, attenta alla verosimiglianza del dato materiale e interpretativo, di cui la figura nascente del regista garantisce la coerenza e l'unitarietà stilistica. Dopo la riforma in senso filologica realizzata nel ducato di Meiningen tra il 1870 e il 1890, è la nascita nel 1887 a Parigi del Théâtre-Libre di André Antoine, nel 1889 a Berlino della Freie Bühne di Otto Brahm, nel 1891 a Londra dell'Indipendent Theatre di J.T. Grein a segnare la diffusione della scena naturalista in Europa. Ma è all'opera teorica e pratica, e in particolare all'attività registica (fu regista delle opere di Cechov e Gor'kij) e pedagogica di Kogstantin Stanislavskij, unita alla fondazione nel 1897 insieme a Nemirovic-Dancenko del Teatro d'Arte di Mosca, che è legata la prima elaborazione di un pensiero sistematico intorno all'arte dell'attore e a quella del regista secondo i dettami di quello che venne definito un `naturalismo spirituale'.

teatro nô
nô Antico dramma serio giapponese, le cui origini affondano nelle pratiche e cerimonie sciamaniche, poi passate in forme teatrali popolari e prevalentemente danzate; da queste, dengaku, bungaku e soprattutto sarugaku, per successive depurazioni, si arriva a Kan'ami Kiyotsugu (1333-84), capo compagnia teatrale nella città di Nara e soprattutto a suo figlio, Zeami Motokiyo (1363-1444), che trasformano il sarugaku (teatro mimico-musicale) in sarugaku nô, ossia d'arte, e ne codificano forme e repertorio. A Zeami risalgono cinquanta 50 dei circa 240 testi che rappresentano il repertorio tutt'ora in uso del nô, nonché diversi trattati in cui sono sanciti il canone, rimasto immutato, e basi teoriche. La materia narrativa deriva dall'antico patrimonio eroico e feudale giapponese. Canto, recitazione, danza e musica si mescolano nella rappresentazione del dramma, che dura circa 45 minuti e che prevede uno shite (protagonista) e un waki (deuteragonista), affiancati da comprimari (tsuri) e da un coro (ji). Lo shite è spesso un sogno o visione del waki, che entra in scena per primo e, dopo un breve preludio orchestrale, descrive il luogo in cui si trova. Avanza lo shite, il waki lo accoglie e lo interroga, lo shite narra, generalmente in terza persona, la propria vicenda ed esce. In genere, si tratta dello spirito di un personaggio celebre per le sue gesta, che ha incontrato una fine dolorosa e che non è ancora del tutto purificato del ricordo della vita terrena e delle sue passioni; può essere un samurai ucciso per fedeltà o una donna che ha perso amore o figlio, come è sottolineato dalla varietà dei costumi. Segue solitamente un intermezzo fra waki e kyogen (buffone; il termine è poi passato ad indicare gli intermezzi stessi e in seguito farse a sé stanti). Lo shite riappare ora in nuove vesti, con l'aspetto di quando visse e soffrì. Il waki, che sempre sogna o ha una visione, lo invita a parlare ancora e lo shite rivive, dialogando con il coro la propria storia. La struttura drammaturgica è fissa, come i luoghi scenici (la colonna destra è del waki, quella sinistra dello shite) e il modo di muoversi, unidirezionale e ondeggiante. I gesti sono pochi e selezionati, spesso con valore convenzionalmente metaforico (le mani agli occhi per il pianto, alzare il viso consolazione o chiarore della luna). Il ji, coro formato da Kabuki otto-dieci persone, allineate su due file, commenta e accompagna ed evoca il paesaggio; il gruppo strumentale che accompagna è composto da tre diversi tipi di tamburi e un flauto. Gli attori sono solo uomini, che interpretano anche i personaggi femminili. La scenografia è essenziale, lineare nella funzionalità drammatica e spoglia: secondo il canone fissato da Zeami, il palcoscenico, comunemente eretto all'aperto, comprende un'area per l'azione, un quadrato di sei per sei metri, contiguo ad un ponte, sul fondo, che collega il palco con lo spogliatoio; quattro colonne sostengono un tetto a pagoda, a destra sta una veranda per il coro, di fronte una scaletta collega il palco alla platea, ma è solo simbolica (non viene mai usata). Sul fondo, dove è dipinto l'unico elemento scenico del nô, un vecchio pino nodoso, siede l'orchestra. I costumi sono sontuosi e si usano maschere elaborate, una settantina di tipi, che posseggono autonomo valore artistico. In genere vengono rappresentati cinque nô (in passato, solitamente sette) in serie, intercalati da kyogen. Il nô, nato come genere elitario, rimasto per secoli patrimonio dell'aristocrazia militare (era ritenuto essenziale per la formazione dei samurai, ai quale erano vietati invece altri generi, come il kabuki), è tramandato ancor oggi per tradizione familiare, a memoria, di padre in figlio (che può essere adottivo, come spesso diviene l'allievo prediletto).

teatro radiofonico
La radio è un mezzo di comunicazione e di espressione che si rivolge a un unico tipo di percezione da parte dello spettatore: quella sonora; perciò la trasmissione radiofonica di testi teatrali deve avvalersi di una messinscena apposita che tenga conto di questo limite esaltandolo in modo creativo. La radio stimola sempre il suo pubblico alla partecipazione fantastica, lo guida all'ascolto di voci, musiche, rumori tali da evocare un mondo verosimile. Il teatro radiofonico ha dunque una sua specifica autonomia espressiva legata alla natura del mezzo; non possiede naturalmente le caratteristiche che sono proprie dell'evento scenico che ha luogo davanti agli spettatori, ma ha la possibilità di valorizzare al massimo la parola quale espressione più sottile e profonda della persona umana in quanto capace di esprimere e comunicare idee, emozioni, sentimenti, stati d'animo. La `messinscena' della parola, naturalmente, è affidata alla voce recitante degli attori che appare lo `strumento' sonoro più importante. Non tutti i testi drammatici possono essere adattati alla radio: occorre che essi offrano la possibilità di `corporeizzare' la parola e di `rappresentare' con i suoni luoghi, ambienti, azioni. `Radiodramma' viene denominato il testo drammatico scritto appositamente per la trasmissione radiofonica: esso prevede in genere la presenza di pochi personaggi, un intreccio poco elaborato, un dialogo teso a definire i rapporti psicologici e i confronti intellettuali più che le azioni. Negli Usa la radio è sempre stata essenzialmente una sorta di `giornale parlato' con forti interessi pubblicitari; peraltro non mancano esperienze importanti quali il `verse-play for radio', una forma di drammaturgia poetica ideata da Orson Welles Archibald Mac Leish, e la nota trasmissione di Orson Welles culminata con la messa in onda di The War of the Worlds di H.G. Wells (1938), che causò grande spavento in molti ascoltatori convinti che si trattasse di un notiziario di attualità. In tutta Europa (esclusa l'Italia) il radiodramma ha acquistato una fama e un prestigio ormai saldamente consolidati. La Gran Bretagna ha una notevole tradizione in questo campo (Stoppard, Beckett, Pinter, Spark, Arden, Thomas, Wesker). Pure in Francia troviamo tra gli autori di radiodrammi i maggiori letterati del Novecento: Artaud, Queneau, Sarraute, Duras, vari esponenti del Teatro dell'assurdo e del Nouveau roman. La stagione più felice del radiodramma tedesco va dal 1925 al 1940, ma prosegue ancora oggi una vastissima produzione, la cui fortuna è dovuta a nomi come quelli di Brecht, Frisch, Dürrenmatt, Handke. Nel nord Europa la situazione non cambia; ricordiamo che anche l'esordio di Ingmar Bergman è stato nel campo della radiodrammaturgia. In Italia pochi dei nostri letterati e drammaturghi si sono cimentati nel radiodramma: tra i nomi più noti si possono citare solo Savinio, Pratolini, Fabbri, Bontempelli, Anton, Buzzati, Primo Levi. Dall'inizio delle trasmissioni (1924) fino al dopoguerra la radio è stata considerata nel nostro paese soprattutto un mezzo di propaganda; in seguito è stata quasi sempre privilegiata la musica in quanto considerata un intrattenimento più gradito dal pubblico. Così è giunta relativamente tardi la consapevolezza delle possibilità del mezzo, e il mondo intellettuale raramente gli si è accostato con continuità. Non è un caso che il radiodramma Rai di maggior successo sia stato I 4 moschettieri di Nizza e Morbelli (1934-35), evasiva parodia umoristico-canora che a lungo restò il modello della rivista musicale radiofonica. Prima del 1950, la prassi del teatro radiofonico italiano si limitava per lo più all'allestimento di opere molto semplici, prevalentemente di autori italiani, le quali si prestavano a essere recitate in diretta; il risultato era raramente qualcosa più di un `rozzo artigianato rumoristico'. La nascita del Prix Italia costituisce un notevole stimolo per la produzione radioteatrale, perché istituisce contatti periodici tra esperti di vari Paesi permettendo confronti fruttuosi. Sempre nel 1950 l'apertura del terzo programma vede affacciarsi nel palinsesto titoli di romanzi e racconti sceneggiati, di classici del teatro di tutti i tempi e tutto il mondo, di commedie e radiodrammi contemporanei. L'inizio delle trasmissioni televisive non danneggia affatto l'attività della radio nel campo teatrale, in quanto gli anni '60 costituiscono senza dubbio il periodo più felice della prosa radiofonica italiana, in cui a un apparato tecnico molto raffinato corrispondono una selezione di testi attenta e sistematica e una pratica di messinscena professionalmente elevatissima. La Rai può contare non solo su vari registi di grande mestiere come Morandi, Majano e Scaglione, ma anche su giovani sperimentatori come Lerici, Pressburger, Bene, Quartucci, Liberovici e su musicisti quali Berio, Nono, Maderna. Nonostante il successo delle trasmissioni di `intrattenimento in diretta', il teatro radiofonico ottiene ancora ottimi risultati espressivi, grazie anche alla riforma della Rai (1976) in seguito alla quale vengono programmati grandi `cicli' teatrali dedicati a Schnitzler, Miller, Duras, Svevo ecc., e grazie all'impegno dimostrato dalla sperimentazione teatrale degli anni '80 nel tentativo di rinnovare il linguaggio radiofonico spesso legato a stereotipi monotoni e ripetitivi. Nel 1997 Luca Ronconi ha promosso un vasto programma di teatro radiofonico scegliendo testi e registi, dirigendo egli stesso alcuni spettacoli, con l'obiettivo di non surrogare l'esperienza del palcoscenico, ma di rivolgersi all'ascoltatore considerandolo simile al lettore di un libro, pronto a lavorare con la propria fantasia.

teatro per ragazzi
Con il termine teatro per i ragazzi o teatro-ragazzi, come sempre più spesso negli ultimi anni lo si è definito, si indicano in genere quelle opere teatrali realizzate per un pubblico infantile, molto spesso scolastico. La fascia dei fruitori si è via via allargata col tempo e oggi il pubblico che assiste a questi spettacoli viene comunemente diviso in fasce d'età: dalle scuole materne a quelle superiori con repertorio, metodologie e stilemi diversi tra loro, tanto che è invalsa anche la dizione `teatro per l'infanzia e la gioventù'. Il teatro-ragazzi contemporaneo inizia in Italia come movimento e progetto alla fine degli anni '60, in stretto rapporto con il cambiamento della società e dei modelli culturali che stava avvenendo in quegli anni. Si individua nel bambino sia uno spettatore attivo e sensibile che è al di fuori di tutte le rigide convenzioni del teatro ufficiale, sia un attore che si esprime liberamente facendo uscire da sé tutte le proprie potenzialità. È il momento dell'animazione teatrale, dove, nella scuola che cambia, il teatro-ragazzi si fonde con il teatro per i ragazzi. In questo senso a Torino nascono le esperienze di Franco Passatore, Remo Rostagno e Sergio Liberovici. È da questo nuovo modo di concepire la scuola e il teatro, che ha le sue radici il teatro-ragazzi italiano (assai diverso per concezione da quello degli altri stati europei) che diventa adulto e professionista attraverso l'attività di alcuni operatori, non a caso spesso provenienti dalla ricerca, che decidono di rivolgersi esclusivamente ai ragazzi. Il teatro-ragazzi esce quindi dalla scuola e diventa autonomo, pur essendo parte integrante dello sviluppo del bambino, e in più, attraverso il lavoro di questi professionisti, usa stilemi propri, molto diversi dal teatro per adulti: non è un teatro rimpicciolito, ma sperimenta sempre nuovi linguaggi al servizio dell'immaginario bambino. Negli anni '70 nascono decine e decine di compagnie che sia dal punto di vista delle tecniche e delle poetiche, sia dal punto di vista organizzativo e della produzione, rinnovano i linguaggi (teatro d'attore, il teatro di figura, la narrazione) e i meccanismi del teatro italiano. Nascono le associazioni di categoria, i festival di Muggia, Cascina (Vetrina Italia) e Parma (Vetrina Europa), il premio Stregagatto, i centri nazionali. Oggi il teatro-ragazzi italiano conta decine e decine di operatori e di compagnie che vi si dedicano e si sta consolidando come vero e proprio teatro popolare, adatto a tutti i pubblici e a tutte le età. Molti e variegati sono i festival di teatro-ragazzi che si svolgono in Italia e che hanno raccolto l'eredità della storica manifestazione di Muggia che per diversi anni è stata un punto di riferimento per gli operatori. Senza dubbio il più importante è Vetrina Italia, organizzata a Cascina dal 1986 da uno dei centri nazionali più operativi, Sipario, da qualche anno diventato Fondazione. Accanto a questa iniziativa, il Teatro delle Briciole di Parma ha realizzato Vetrina Europa, rara occasione per vedere in Italia le migliori produzioni estere. Il teatro-ragazzi del Sud ha la possibilità di farsi conoscere e apprezzare con Angeli a Sud, Festival che si svolge da cinque anni prima a Vico Equense, poi a Salerno, organizzato da due compagnie, L'Arcolaio e I teatrini con il concorso del Teatro pubblico campano. Altri festival in forte ascesa sono: Una città per gioco, organizzato cinque a Vimercate dalla cooperativa Tangram e I teatri del mondo di Porto S. Elpidio ideato dalla compagnia Teatri Comunicanti. Infine ci sono vetrine regionali nel Veneto, in Puglia, in Emilia Romagna e in Lombardia dove Segnali, la manifestazione organizzata dai Centri di teatro-ragazzi lombardi si sta ora configurando in un vero e proprio festival. Un posto a parte merita il Festival nazionale del teatro per ragazzi di Padova, organizzato dal 1981 dall'Istituto italiano di sperimentazione e diffusione del Teatro per Ragazzi che prevede premi assegnati da giurie formate da ragazzi.

teatro di poesia
Sorto in Francia come reazione alle espressioni deteriori della drammaturgia naturalista (Ancey, Jullien, Brieux, Fabre, Mirbeau e altri) promossa dal Théâtre Libre di Antoine, il teatro di poesia è legato all'opera del principale collaboratore dello stesso Antoine, Aurélien Lugné-Poe. Con il poeta Paul Fort fondò nel 1891 il Théâtre d'Art, mentre con lo scrittore Camille Mauclair e col pittore Vuillard diede vita e diresse tra il 1893 e il 1929 il Théâtre de l'Oeuvre. Attento alla nuova drammaturgia straniera (Ibsen, Strindberg, Hauptmann, Gor'kij, Shaw, Verhaeren, Claudel) e alla nuova arte della regia e dell'interpretazione (fu fra l'altro impresario della Duse), Lugné-Poe scoprì, sostenne e fece conoscere l'opera poetica e drammaturgica del belga Maurice Maeterlinck (Pelléas et Mélisande, 1892; La mort de Tintagiles, 1894; L'oiseau bleu, 1910), considerato per la componente simbolica, lirica e tragica il maggiore esponente del teatro di poesia.

teatro simbolista
Nasce in aperta polemica tanto con il naturalismo di Antoine quanto con la drammaturgia ufficiale e neoromantica alla Rostand e alla Dumas figlio. Paul Fort fonda, nel 1890, il Théâtre d'Art, luogo in cui si prefigge di interpretare `l'idéal', ossia quel polo dello spirito individuato per primo da Baudelaire, che ambisce a disfarsi della trappola del reale (e del realismo) per assurgere a un assoluto che sfugga alle leggi del tempo. In questo teatro di grande sperimentazione, spesso dilettantesca, sono rappresentati, tra gli altri, i testi di Rachilde (Madame la Mort), Pierre Quillard (La fille aux mains coupées), Maeterlinck (L'Intruse e Les Aveugles), Catulle Mendès (Le Soleil de Minuit). L'esperienza del Théâtre d'Art finì in una grande bagarre il giorno in cui si tentò di concretizzare, nello spazio teatrale, una sinestesia baudelairiana (con tanto di musiche e profumi diffusi in sala). Nel 1892, dunque, il teatro chiude. L'anno seguente, il 17 maggio, Lugné-Poe mette in scena, al Théâtre de l'Oeuvre, il Pelléas et Mélisande di Maeterlinck. Convinto, almeno in una fase iniziale, del superamento della supremazia della rappresentazione e dell'importanza del valore semantico-simbolico di ogni elemento scenico - il che si traduceva, a livello della messa in scena, nella dizione regolare e impersonale del testo, nella lentezza dei movimenti degli attori, spesso nascosti dietro un sipario di velo, nella penombra in sala, nella suggestione della musica, delle immagini e dei profumi -, Lugné-Poe fa conoscere al pubblico un teatro considerato, fino a quel momento, irrappresentabile: Axël di Villiers de l'Isle-Adam (1885), La Tentation de Saint Antoine di Flaubert (1874), Peer Gynt (1867), Salomé di Oscar Wilde, Brocéliande di Jean Lorrain, La Gardienne di Henri de Régnier; inoltre, introduce sulla scena francese il repertorio scandinavo (Ibsen, Strindberg) e anglo-irlandese (Synge e Bernard Shaw). Nel 1897 Lugné-Poe si allontana dalla scuola `idealista', da lui accusata di perseguire tendenze eccessivamente mistiche e mette in scena il celebre e provocatorio Ubu re di Alfred Jarry. Quando allude al misticismo, Lugné-Poe pensa a personaggi quali Joséphin Péladan (Les fils des étoiles, Babylone) fondatore del Théâtre de la Rose-Croix e assertore della natura religiosa dell'esperienza teatrale; oppure agli epigoni wagneriani, entusiasti della mitica sintesi delle arti ottenuta nelle opere del grande compositore tedesco (Dujardin, Théodore de Wyzéwa). Il t. s. trova asilo, nei primi decenni del ventesimo secolo, in tre sale, che hanno, tuttavia, vita breve: il Théâtre Idéaliste (Bordeaux 1911-1918), il Théâtre Esotérique (1923-1927) e il Théâtre des Poètes (1926), gli ultimi due fondati da Paul Castan. Secondo il giudizio di Mariangela Mazzocchi Doglio, "a queste opere drammatiche che rimasero spesso nei limiti della ricerca e della sperimentazione, va tuttavia il merito di aver iniziato un discorso di rottura dei canoni tradizionali del teatro e di aver preparato la base culturale alla spinta innovativa che verrà realizzata alcuni anni più tardi dai Balletts Russes e da Stanislavskij, dal Vieux-Colombier e da Antonin Artaud, da Gordon Craig e da Appia".

teatro televisivo
Il teatro televisivo o teleteatro è il connubio tra due pratiche discorsive differenti: il teatro e la tv sono mezzi di comunicazione e di espressione profondamente diversi tra loro, sia a livello di linguaggio, sia a livello di strutture drammaturgiche. Questo connubio, peralto proprio perché costituito da elementi eterogenei, si dimostra spesso capace di offrire prodotti di considerevole valore espressivo. Una trasmissione televisiva non può riprodurre il `magico rapporto' che esiste in teatro tra gli attori sul palcoscenico e gli spettatori davanti a loro, però è assai utile come `memoria elettronica' in quanto documenta eventi spettacolari di per se stessi effimeri e irripetibili. Inoltre la tv possiede potenzialità creative autonome, grazie alle quali il dato teatrale viene rielaborato, reinterpretato e messo in scena all'interno di un palinsesto e attraverso un dispositivo elettronico che condizionano la fruizione dello spettatore. D'altra parte il linguaggio della messinscena teatrale non viene necessariamente asservito al mezzo video, ma spesso finisce per condizionarlo, tanto da costituire addirittura la base espressiva di molti spettacoli televisivi, il punto di riferimento della strategia comunicativa dell'informazione e dell'intrattenimento. Soprattutto nei suoi primi anni di vita, la televisione è stata quasi una `figlia' del teatro, perché lo ha assunto come suo modello TINO BUAZZELLI  La bottega del caffè  di Carlo Goldoni  linguistico, comunicativo e culturale. In Italia la prima serata di trasmissioni ufficiali della Rai (il 3 gennaio 1954) presentò in `prima serata' una commedia di Goldoni, L'osteria della posta, diretta da Franco Enriquez; in seguito, per molto tempo il palinsesto dedicò agli spettacoli di prosa un rilievo particolare in ragione di una progettualità culturale, didattica e ricreativa. La `maniera teatrale' si impose nei programmi televisivi degli anni '50 e '60 come strumento ideale attraverso il quale il pubblico veniva istruito, informato e divertito, secondo un preciso progetto di formazione culturale delle masse. Dello stesso progetto facevano parte anche i romanzi sceneggiati, i quali si fondavano su impianti scenografici, schemi recitativi e drammaturgici tipici della tradizione del palcoscenico. Negli Usa i network hanno prodotto, fin dai primi anni della loro attività, molti eccellenti teledrammi scritti appositamente per la tv, per lo più con ripresa in diretta da studio. Autori come Paddy Chayefsky hanno svolto un attento studio sul ruolo dei mezzi tecnici ed espressivi della tv al servizio dell'azione scenica. Anche in Gran Bretagna gli adattamenti di testi teatrali sono stati meno numerosi dei teledrammi, scritti spesso da grandi personalità come Osborne, Pinter, Owen, Arden. In Italia invece sono scarsi gli esempi memorabili di teledrammaturgia, proprio perché si è sempre preferito puntare su testi in qualche modo già accolti dalla cultura scolastica e popolare. La storia del nostro teatro televisivo è dunque legata non al nome degli autori dei testi, ma soprattutto a quello dei registi che hanno elaborato un proprio modo originale di leggere e interpretare testi teatrali, romanzi e racconti: in più di quindici anni Anton Giulio Majano, Sandro Bolchi, Silverio Blasi, Daniele D'Anza, Vittorio Cottafavi, Guglielmo Morandi e altri hanno codificato il linguaggio del teatro televisivo realizzando opere di pregio, ma riducendo talora l'immagine ad un ruolo di sudditanza rispetto alla parola. Per primi Eduardo De Filippo, Giorgio Strehler, Luigi Squarzina e Ugo Gregoretti hanno intuito che la traduzione televisiva dell'evento teatrale deve tenere conto della specificità della tv in quanto mezzo stesso di `scrittura' dello spettacolo. La `svolta' decisiva arriva negli anni '70, quando i maggiori registi del teatro di ricerca dell'epoca (Luca Ronconi, Carmelo Bene, Carlo Quartucci) sperimentano un rapporto del tutto nuovo tra il loro lavoro scenico e la televisione. Essi inventano un modo originale di usare le inquadrature, i movimenti delle telecamere, gli effetti speciali elettronici, i microfoni e la presa diretta, realizzando spettacoli solo in funzione del mezzo elettronico e delle sue caratteristiche drammaturgiche. Contemporaneamente a queste notevoli sperimentazioni, le trasmissioni televisive di prosa diventano meno frequenti. Le ragioni del diminuito interesse della Rai per il teatro sono dovute soprattutto a motivazioni d'ordine economico: la concorrenza con le televisioni private porta a privilegiare gli schemi spettacolari del cinema e della pubblicità, più graditi dal grande pubblico. In questi ultimi anni stiamo peraltro assistendo ad un nuovo interesse per il teatro televisivo in tutta Europa, come dimostrato dalle trasmissioni franco-tedesche di Arte; in Italia la Rai torna a dedicare spazio a questo tipo di spettacolo, alternando prodotti convenzionali ad altri in qualche modo innovativi e stimolanti. È discutibile il fatto che il teatro televisivo sia un vero e proprio `genere', in base ad una `griglia' attiva sul piano dei contenuti e sulla struttura formale. Non pare possibile individuare tassonomie utili a `catalogare' le varie opere teleteatrali in categorie definite secondo precisi principi semantici. Sono stati talora proposti criteri di classificazione in base al tipo di testo drammaturgico, al luogo ove vengono effettuate le riprese televisive, al livello di comunicazione e di fruizione in cui il prodotto video si inserisce. Sono state distinte le forme `pure' di teleteatro (trasmissioni in diretta, adattamenti, traduzioni), quelle derivate (programmi di fiction, di informazione, di intrattenimento con modello teatrale), quelle miste (originali televisivi). È facile però dimostrare che in molti casi non è assolutamente possibile definire con univocità il materiale audiovisivo secondo i principi sopra accennati, perché numerose sono le contaminazioni e le interferenze tra un modello e l'altro.

varietà
Di nome e di fatto, il varietà era una babele di attrazioni varie prese in prestito ciascuna a piccole dosi dal teatro, dal circo, dall'operetta, dalla lirica, dallo sport, dal cinematografo. Perciò oggi con il termine varietà di solito si intendono generi spettacolari diversi fra loro per caratteristiche estetiche, sociali e di mercato. Genericamente, si parla di varietà riferendosi a tutta la composita tradizione della comicità popolare italiana del Novecento, ma in realtà essa si è sviluppata lungo le direttrici, in sé teatralmente autonome, del caffè-concerto, del varietà, dell'avanspettacolo, della rivista e infine della commedia musicale. L'arco di tempo abbracciato da questi generi va dall'ultimo decennio dell'Ottocento agli anni '60 del secolo successivo. L'origine comune è d'importazione francese, sul modello del café-chantant: spettacoli che avevano vita su pedane volanti costruite all'aperto accanto ai tavolini dei caffè più lussuosi delle città. Qui si esibivano, scritturati dai proprietari dei locali, comici, duettisti e cantanti. Quando, sul finire dell'Ottocento la moda del caffè-concerto prese piede definitivamente anche in Italia, nacquero spazi appositi per questo tipo di spettacoli: locali chiusi, veri e propri teatri, nei quali dare rappresentazioni in ogni periodo dell'anno, non solo in estate. Primo locale di questo genere, da noi, fu il Salone Margherita di Napoli inaugurato nel 1890 sotto la Galleria Toledo. Il caffè-concerto era fatto per ricchi in ricchi locali, ma comici, duettisti e cantanti diventarono una moda anche fra i meno abbienti. Ogni parco d'attrazioni (ce n'erano parecchi in molte città accanto alle stazioni e ai mercati) ebbe presto il suo padiglione teatrale dove si esibivano attori comici e cantanti; ballerine e imitatori. Gli attori drammatici, invece, vi rappresentavano a puntate grandi romanzi d'appendice riscritti per la scena, soap operas d'epoca. Il varietà in senso stretto rappresenta il naturale sviluppo artistico ed economico del caffè-concerto. All'inizio del Novecento, assieme al Salone Margherita a Napoli, le cattedrali riconosciute del genere erano i romani Teatro Jovinelli Ettore Petrolini inaugurato nel 1909 da Raffaele Viviani e la Sala Umberto aperta da Ettore Petrolini nel 1912. In questi luoghi lussuosi e ben frequentati, gli impresari riunirono il meglio di ciò che capitava nei caffè concerto e nei `padiglioni della meraviglie'. C'erano comici, duettisti e cantanti, ovviamente; ma anche ballerine, maghi illusionisti e prestidigitatori, contorsioniste, donne barbute e ballerini acrobatici, forzuti e giocolieri. In più, sul finire degli anni '10, fra i vari numeri del varietà comparve anche il cinematografo, sotto forma di breve proiezione di una farsa o di un rapido dramma a fosche tinte. Così arrivarono in Italia alcuni grandi comici stranieri (Harold Lloyd o Charlie Chaplin) e così si sviluppò la prima industria cinematografica autoctona (a Torino si producevano le comiche, a Napoli i drammi). Siamo a metà degli anni '10 quando la guerra scalfisce le abitudini dell'Italia lontana dal fronte ma fa arricchire improvvisamente temerari impresari teatrali che organizzano spettacoli per i prigionieri, i feriti, gli orfani, i reduci... È da tutto questo che il varietà trae la sua energia maggiore, arrivando a essere unica forma di spettacolo totalmente nazionale e vero emblema dell'unità d'Italia: vi si recitano e cantano testi scritti in tutte le lingue-dialetti italiane (non solo napoletano e veneziano, ma anche milanese, piemontese, siciliano, romanesco...). Nel varietà nacquero e prosperarono alcuni fra i massimi artisti teatrali della prima metà del Novecento. Prima di tutti Nicola Maldacea, cantante napoletano che inventò la `macchietta', ossia la canzone comica in versi basata su una struttura narrativa molto articolata e di forte carica satirica. Poi vanno ricordati anche Leopoldo Fregoli (imitatore straordinario, capace di cambiare decine di fattezze e abiti nel corso di una sola serata); Ettore Petrolini (autore di alcune straordinarie parodie); Gustavo De Marco (il celebre uomo-marionetta cui si ispirò Totò); Anna Fougez (grande cantante) e suo marito René Thano (ballerino e raffinato coreografo); Raffaele Viviani (creatore di caratteri comici e drammatici rimasti nella storia di tutto il teatro del Novecento, non solo del varietà); Gilberto Govi (autore di sketch che spesso raggiungevano la dimensione della vera e propria commedia); Angelo Musco (irresistibile maschera tragicomica siciliana), Angelo Cecchelin (unico comico capace di reale ostilità nei confronti del futuro regime fascista). Oltre alla macchietta, il varietà diede corso a una ricca produzione di canzoni popolari ma anche di monologhi, sketch e parodie. In ogni caso, tutto ruotava intorno a una trovata (per lo più comica) legata all'equivoco di un doppio senso che, se nei casi migliori nascondeva un risvolto spinto, nella maggior parte delle circostanze smetteva di essere doppio palesando sconcezze fin troppo dirette. Il varietà ebbe un successo popolare e mondano assolutamente strepitoso (non paragonabile ad alcun altro genere di spettacolo all'epoca) nei primi tre decenni del Novecento, generando poi, in seguito a una radicale trasformazione del mercato teatrale, l'avanspettacolo e la rivista, generi di altrettanto vasto successo nei due decenni successivi.

 

Le scuole 

Accademia d'arte drammatica  Accademia dei Filodrammatici Actors Studio Paolo Grassi (scuola del Piccolo Teatro)

 

Accademia d'arte drammatica `Silvio D'Amico'
Istituto pubblico che si occupa della formazione di attori e registi di teatro (l'unico Istituto in Italia riconosciuto e finanziato congiuntamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri/Dipartimento dello Spettacolo e dal Ministero della Pubblica Istruzione). Viene fondata a Roma nel 1936, subentrando alla precedente Regia Scuola di recitazione intitolata a Eleonora Duse (che aveva formato personaggi come Anna Magnani, Paolo Stoppa e Sergio Tofano), attraverso un Regio decreto del 13 febbraio voluto da uno dei più importanti teorici teatrali italiani, il critico e scrittore Silvio D'Amico. Nominato in quegli anni Commissario straordinario per la riforma della scuola di recitazione di Roma, amico di Copeau e di Pirandello, Silvio D'Amico rimase per molti anni alla guida dell'Accademia con la carica di presidente. Tra la guerra e il dopoguerra l'Accademia vive la sua stagione più intensa, annoverando tra i suoi allievi: V. Gassman, A. Celi, L. Squarzina, E. Pandolfi, R. Falk, L. Padovani e, negli anni successivi, P. Panelli, N. Manfredi, T. Buazzelli, G. De Lullo, G. Tedeschi, M. Vitti, M. Missiroli e L. Ronconi. Centrale in Italia è l'attività culturale e formativa dell'Accademia, soprattutto per quel che riguarda la trasmissione del patrimonio teatrale tradizionale. Negli ultimi anni l'Accademia produce circa spettacoli realizzati dai suoi allievi, spesso affiancati da registi, registi-pedagoghi e da personale tecnico ed artistico (scenografi, costumisti, light designer) qualificato. Una politica di rapporti internazionali è stata sviluppata recentemente dall'Accademia che ha intensificato la sua presenza in molti festival, ma soprattutto ha stabilito rapporti di scambio e ha realizzato progetti in comune con alcune scuole d'Europa: come la Theater School di Amsterdam, l'Accademia nazionale di Cracovia, la Statenschole di Copenhagen, l'Escuela National de Arte Dramatico di Bogotà, la Scuola del Teatro Nazionale Greco. Particolarmente interessante è il rapporto di collaborazione instaurato con il GITIS di Mosca, con la Guildhall School di Londra e con l'Istitut del Teatre di Barcellona, nell'ambito della Scuola europea per l'arte dell'attore che si impegna nell'organizzazione di laboratori internazionali dell'estetica teatrale. Il corpo docente dell'istituto è formato da un nucleo fisso di insegnanti, per le materie tecnico e teoriche, mentre i docenti di recitazione, regia e dei corsi speciali sono scelti dalla direzione. Dalla sua fondazione ad oggi l'Accademia ha inciso nella realtà del teatro e del cinema italiano: nell'albo d'oro si possono annoverare oltre ai grandi nomi già citati anche i più giovani: S. Castellitto, G. Ranzi, R. Girone, E. Fantastichini, S. Rubini, G. Barberio Corsetti.

Accademia e Teatro dei Filodrammatici
Istituzione teatrale e culturale milanese. Nell'arco dei suoi oltre duecento anni di vita ha dato vita a eventi fondamentali della storia del teatro e della cultura italiana attraverso gli allestimenti realizzati al Teatro Filodrammatici e all'attività della Scuola d'arte drammatica. Fondata da Giovanni Bernardoni nel 1796 con il nome di Teatro Patriottico, nasce come associazione culturale con l'obiettivo di diffondere gli ideali della Rivoluzione francese (la prima sede fu una sala presso il Collegio dei Nobili all'interno del Palazzo Regio Ducale, poi Palazzo Reale). Diventa Accademia dei Filodrammatici nel 1805, anno in cui viene anche riconosciuta la scuola di recitazione e dopo che si è trasferito nella sede attuale ricavata da una chiesa sconsacrata - vicino al Teatro alla Scala - che viene completamente ristrutturata e dotata di sala teatrale. Nasce così il Teatro Filodrammatici che è inaugurato il 30 dicembre del 1800 con il Filippo dell'Alfieri. Vincenzo Monti è uno dei soci illustri insieme a Carlo Porta (che vi ha anche recitato), Ugo Foscolo, Cesare Beccaria e poi Giuseppe Giacosa (che fu anche insegnante di recitazione). Per alcuni anni ha proposto anche melodrammi (Giuseppe Verdi per due anni fu maestro di cembalo e vi si esibì come direttore). A segnare la storia della scuola sono i nomi illustri di insegnanti e presidenti, dopo Giuseppe Giacosa: Emilia Varini, Enrico Reinach, Gualtiero Tumiati. Vi si diplomano alcune figure chiave del teatro contemporaneo: Marta Abba, Kiki Palmer, mentre nel Teatro vi si esibivano la Duse (che tornerà in scena proprio qui, nel 1923, dopo dodici anni di assenza dalle scene) e, tra le altre primedonne: Sarah Bernhardt, Dina Galli. Nel 1930 Anton Giulio Bragaglia presentò per la prima volta in Italia L'opera da tre soldi con il titolo La veglia dei lestofanti. Gli anni '30 dell'Accademia sono segnati dalla figura di Esperia Sperani, la celebre attrice che fu insegnante di recitazione di un'intera generazione che avrebbe fatto la storia del teatro nel secondo dopoguerra. Si formeranno qui tra gli altri: G. Strehler, F. Parenti, T. Carraro e M. Melato. Colpito dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale il Teatro Filodrammatici fu ricostruito e reinaugurato nel 1970. Dopo la riapertura si succederanno altri direttori importanti (E. Calindri, fino 1985) fino all'attuale gestione legata all'attività della Compagnia del Teatro Filodrammatici (nata proprio nel 1970 ad opera di un gruppo di ex allievi). L'Accademia e la Compagnia, dirette da Riccardo Pradella, negli ultimi vent'anni hanno portato avanti con buoni risultati la tradizione del teatro italiano offrendo la possibilità di reinterpretare classici antichi e moderni (La cameriera brillante di Goldoni, 1974-75; La mandragola di Machiavelli, 1977-78; Tristi amori di Giacosa, 1979-80; Criside di Piccolomini, 1985-86) e, soprattutto, dando spazio alla drammaturgia italiana mettendo in scena novità: Il benessere di Brusati e Mauri, 1971-72; L'anitra bianca di Bajini, 1972-73; Giardino d'inferno di Mainardi, 1975-76; Il vero Silvestri di Mainardi e Soldati, 1976-77; Il senatore Fox di Luigi Lunari, 1980-81; Il ladro in casa di Svevo e Un corpo estraneo di R. Rosso, 1983-84.

Actors Studio
Scuola e laboratorio per attori. Aperto a New York nel 1947 dai registi Elia Elia Kazan Kazan e Robert Lewis, dalla produttrice Cheryl Crawford, è in seguito diretto dal 1951 da Lee Strasberg, allontanatosi Lewis per dissensi artistici e poco presente Kazan per i molti impegni a Broadway e a Hollywood. Tutte queste persone avevano vissuto negli anni '30 l'esperienza del Group Theatre e avevano improntato fin da allora la propria attività ai principi di Stanislavskij, appresi attraverso le lezioni del regista polacco Richard Boleslavski, emigrato dal Teatro d'Arte di Mosca agli Usa, e dalla pubblicazione in Europa e in America della prima parte del Lavoro dell'attore, la più importante opera teorica del Maestro. Scopo dell'Actors Studio era fornire agli attori (ammessi dopo una rigorosa selezione) uno spazio nel quale perfezionare i propri strumenti espressivi in esercizi non finalizzati alla produzione di uno spettacolo. Era la versione americana del `sistema' del regista russo, il cosiddetto `metodo' caratterizzato da una particolare accentuazione degli esercizi di `memoria emotiva' passati attraverso il filtro della psicoanalisi. Strasberg ne divenne l'esponente principale e sotto la sua guida lavorarono molti attori destinati a diventare famosi sulle scene e sullo schermo (M. Brando, J. Dean, M. Clift, D. Hoffman, R. De Niro, A. Pacino, S. Winters, G. Page).

Scuola d'arte drammatica `Paolo Grassi'
Paolo Grassi, Bertolt Brecht e Giorgio Strehler Fondata nel 1951 da Paolo Grassi e Giorgio Strehler come scuola del Piccolo Teatro, dal 1967 passa alla gestione del Comune di Milano. Dopo aver proposto un corso per attori ha successivamente esteso il campo della formazione professionale ad altre attività dello spettacolo: oggi offre corsi di regia teatrale, corsi per operatori dello spettacolo, corsi di scrittura drammaturgica e atelier di teatro-danza, rappresentando un punto di riferimento fondamentale nel panorama delle scuole di teatro. Si è imposta nel campo della ricerca e della promozione culturale organizzando seminari e incontri con importanti personaggi del mondo dello spettacolo e proponendo la rassegna `Scena prima' per la ricerca di nuovi gruppi teatrali. Attiva nelle varie manifestazioni delle città italiane con i suoi spettacoli, nella attuale sede di via Salasco ospita una biblioteca specializzata, un laboratorio audiovisivi, una sartoria teatrale e un laboratorio di costruzione scenotecnica. Moltissimi i diplomati diventati famosi, per citare solo gli ultimi: P. Rossi, A. Albanese. Tra i direttori vanno almeno citati: Roberto Leydi per l'intensa attività sulla cultura popolare e Renato Palazzi per l'apertura ai maestri stranieri da Müller a Kantor alla Bausch.

 

Il metodo Stanislavskij

Konstantin Stanislavskij Stanislavskij Konstantin Sergeevic (K. S. Alekseev; Mosca 1863 - 1938), attore, regista e teorico teatrale russo. Figlio di un facoltoso industriale, frequenta fin dall'infanzia teatri e circhi moscoviti; inoltre sia nella tenuta di Ljubimovka, vicino a Mosca, sia nella casa di città, la famiglia possiede due teatrini privati dove Stanislavskij con i fratelli organizza spettacoli amatoriali, soprattutto operette e vaudeville. Nasce così il `circolo Alekseev', molto apprezzato nella buona società moscovita, dove comincia la lunga carriera di Stanislavskij attore e regista dilettante: una carriera lunghissima, più che ventennale, che dura dal 1877 (inaugurazione del teatrino di Ljubimovka) fino al 1898 (apertura del Teatro d'Arte). Frequenta per breve tempo la scuola d'arte drammatica dei teatri imperiali, prende lezioni di canto da F. Komissarzevskij, ma capisce presto che la vera scuola sono le tavole del palcoscenico e partecipa perciò molto attivamente a spettacoli filodrammatici in circoli e associazioni diverse, scegliendosi lo pseudonimo di Stanislavskij Nel 1888 con il regista Fedorov, il cantante Komissarzevskij e il pittore F. Sollogub fonda la `Società d'arte e di letteratura', che è insieme club di amatori delle arti, scuola e circolo filodrammatico: Stanislavskij interpreta alcuni ruoli molto importanti (il Barone ne Il cavaliere avaro di Puškin, Sotenville in Georges Dandin di Molière, Ananij Jakovlev in Amaro destino di Pisemskij, Ferdinando in Amore e raggiro di Schiller, Paratov in Senza dote di Ostrovskij e Otello). Fra le attrici scritturate c'è la giovane Lilina, che diventa sua moglie nel 1889 e gli rimarrà accanto tutta la vita, interpretando ruoli di primo piano in molti spettacoli da lui diretti. Oltre che interprete sempre più apprezzato da critica e pubblico, Stanislavskij è anche regista: grande interesse suscita I frutti dell'istruzione di L. Tolstoj (1891), dove viene approfondito con coraggio il tema sociale (ne scrive entusiasta un critico che di lì a poco si unirà a Stanislavskij nell'impresa del Teatro d'Arte, Vladimir Nemirovic-Dancenko), a cui seguono Uriel Acosta di Gutzkow (1895), Otello di Shakespeare (1896), Senza dote di Ostrovskij, L'ebreo polacco di Erckmann (1896), La campana sommersa di Hauptmann (1898). Nel 1890 è in tournée a Mosca la compagnia tedesca del duca di Meiningen: Stanislavskij è colpito dalla ferrea disciplina ottenuta dal regista nel lavoro con gli attori, dalla perfezione delle scene di massa, dalla ricercatezza di ambienti e costumi, tutti elementi che cerca di introdurre nel suo lavoro. Una svolta nella vita di Stanislavskij segna l'ormai leggendario incontro con il critico Nemirovic-Dancenko del 21 giugno 1897: in un colloquio durato quindici ore pongono le basi della futura collaborazione e tracciano le linee del loro programma. Viene decisa la fondazione del Teatro d'Arte, con una compagnia formata da elementi della Scuola dove insegna Nemirovic (I. Moskvin, O. Knipper, Vs. Mejerchol'd ecc.) e da attori della Società guidata da Stanislavskij (M. Lilina, M. Andreeva, A. Sanin, A. Artem ecc.). Precise sono le competenze: Nemirovic, scrittore e amico di scrittori, si assume il compito di guidare il nuovo teatro nelle scelte di repertorio; Stanislavskij, più esperto in campo registico, ha la responsabilità del settore artistico. Ogni consuetudine, in atto da decenni nei maggiori teatri russi, viene rivoluzionata: priorità della figura del regista nei confronti della compagnia; nessuna distinzione tra ruoli ("Oggi Amleto, domani comparsa, ma sempre allo stesso livello artistico"); lunghi periodi di prove (invece delle quattro, cinque tradizionali), prima a tavolino poi in scena, con dettagliata disamina del testo, dell'ambiente culturale dell'autore, del periodo storico ecc.; accurata preparazione di scenografie e costumi studiati per ogni singolo spettacolo, al posto di inerti fondali e costumi di repertorio; abolizione della musica generica in apertura di spettacolo e negli intervalli; collaborazione stretta e continua tra tutti i collaboratori allo spettacolo ("L'autore, l'attore, il pittore, il sarto, l'operaio devono servire all'unico fine posto dall'autore alla base della sua opera"). Stanislavskij, per facilitare e insieme rendere più rigoroso il lavoro degli attori, prepara per ogni spettacolo note precise a ogni singola battuta, con i movimenti di chi la pronuncia e di chi la ascolta, e indicazione di intonazione: i suoi copioni di regia, oggi in gran parte pubblicati, testimoniano la straordinaria cura e intelligenza del lavoro preparatorio per ogni spettacolo. Il Teatro d'Arte si inaugura il 14 ottobre 1898 con Lo zar Fëdor Ioannovic di A. Tolstoj, che suscita meraviglia per la precisione naturalistica, la ricchezza di scene e costumi, l'intensità d'interpretazione dell'intera compagnia. Il primo testo di argomento contemporaneo (e anche il primo in cui Stanislavskij e Nemirovic collaborano alla regia) è Il gabbiano di Cechov: Nemirovic riesce a vincere le resistenze dell'autore (due anni prima era stata un fiasco al teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo) e lo spettacolo nella nuova edizione ottiene un trionfo, diventa simbolo della rivoluzione operata dal Teatro d'Arte. Da allora tutti i nuovi lavori di Cechov vanno in scena al Teatro d'Arte con immutato successo: Zio Vanja (1899), Tre sorelle (1901), Il giardino dei ciliegi (1904). Nella sua autobiografia Stanislavskij divide le regie dei primi anni in diverse linee: la linea storica (La morte di Ivan il Terribile di A. Tolstoj, 1899; lavori di Shakespeare, Hauptmann), la linea della fantasia (La fanciulla di neve di Ostrovskij, 1900; L'uccellino azzurro di Maeterlinck, 1908), la linea del simbolismo e dell'impressionismo (L'anitra selvatica, 1901 e Spettri, 1905 di Ibsen; Il dramma della vita di Hamsun, 1907; La vita dell'uomo di Andreev, 1907), la linea dell'intuizione e del sentimento (oltre ai lavori di Cechov, Un mese in campagna, 1909 e i vaudeville, 1912, di Turgenev), la linea social-politica (soprattutto i lavori di Gor'kij: Piccoli borghesi e Bassifondi, 1902 e I figli del sole, 1905). Nel 1905, insoddisfatto del sistema di lavoro fino allora attuato, pronto a tentare nuove vie ma convinto dell'impossibilità di sperimentarle in un teatro con spettacoli giornalieri, prove per tutto il giorno, bilancio rigidamente calcolato, fonda uno Studio (chiamato di via Povarskaja, dal nome della via dove ha sede) e chiama a dirigerlo un suo attore, divenuto regista lontano dal Teatro d'Arte, Vsevolod Mejerchol'd: con lui rivoluziona il sistema di prove, elimina la lettura a tavolino, va direttamente in scena e studia nuove soluzioni insieme agli attori, con improvvisazioni, ricerche sulla gestualità. La morte di Tintagiles di Maeterlinck, spettacolo che dovrebbe inaugurare lo Studio, non soddisfa Stanislavskij che decide di chiudere l'esperimento; ma la spinta verso un rinnovamento sia del metodo di lavoro sia del repertorio rimane. Comincia in questi anni le prime ricerche sul `sistema': come far sì che la parte, ripetuta tante volte, non diventi iterazione meccanica di stampi esteriori? Stanislavskij pone le basi di un nuovo lavoro dell'attore su se stesso e sulla parte; lavoro sia interiore, sulla psiche, sia esteriore, sulla gestualità. Intanto l'esperimento fallito dello Studio lascia tracce: Stanislavskij rivolge l'attenzione a un diverso tipo di testi, soprattutto simbolisti (Hamsun, Andreev), allontanandosi dall'eccessivo psicologismo e dal naturalismo delle messinscene cechoviane e gorkiane. Il tentativo di una maggiore `convenzionalità' culmina nella messinscena dell'Amleto, in collaborazione con il regista inglese Gordon Craig (1910): collaborazione difficile, perché all'astratta concezione di una scenografia geometrica (impostata su pannelli mobili) e di attori-marionette di Craig si contrappone l'idea stanislavskiana di una scena verosimile, abitata da attori in carne e ossa. Nel 1912 riorganizza uno Studio (il Primo Studio del Teatro d'Arte) dove, con un gruppo di giovani attori e l'aiuto di un prezioso collaboratore, L. Sulerzickij, si mette a studiare il `sistema', ad approfondire le ricerche su voce, movimento, rapporto tra testo e psiche dell'attore. La rivoluzione d'Ottobre cambia totalmente la situazione anzitutto economica di Stanislavskij: non è più il facoltoso figlio di un ricco industriale, deve guadagnarsi da vivere con il suo lavoro di attore e regista. Inoltre accettare la nuova situazione significa cambiare il repertorio, rinnovare gli autori, adeguarsi ai radicali mutamenti nel sistema di vita e di organizzazione del teatro. Stanislavskij entra in crisi (e con lui il Teatro d'Arte): non riesce a uscire dal circolo chiuso dei classici; La dodicesima notte al Primo Studio (1917) ha successo ma non va certo nella direzione del rinnovamento che ci si aspetta, la messinscena di Caino di Byron (1920) è un mezzo fiasco, quella del Revisore di Gogol' (1921) viene lodata soprattutto per l'interpretazione del protagonista Michail Cechov (nipote del drammaturgo). Gli organi di stampa dei bolscevichi attaccano il Teatro d'Arte, decrepito monumento del vecchio regime spazzato dalla rivoluzione. Nel 1922-24 Stanislavskij con una parte della compagnia compie una trionfale tournée in Europa e in America, che riconferma anche in patria la credibilità del Teatro d'Arte; su richiesta di un editore americano scrive La mia vita nell'arte, ampia autobiografia dove parla già ampiamente del `sistema'. Al ritorno, dopo Cuore ardente di Ostrovskij (1926), Stanislavskij si apre al repertorio sovietico, senza tuttavia esporsi in prima persona (fa firmare le regie a I. Sudakov); e ottiene due successi con I giorni dei Turbin di Bulgakov (1926) e Il treno blindato 14-69 di Vs. Ivanov (1927), a cui seguono Untilovsk di Leonov (1928) e I dissipatori di Kataev (1928). Ma gli spettacoli che gli riescono meglio sono ancora i classici, Il matrimonio di Figaro di Beaumarchais (1927), Anime morte da Gogol', Attrici di talento e ammiratori di Ostrovskij (1933). Nel 1928, in seguito a un attacco cardiaco durante una replica di Tre sorelle, smette fino alla morte di recitare e si dedica completamente alle ricerche sul `sistema' e a qualche regia (Molière di Bulgakov, Tartufo di Molière), la cui lunghissima gestazione gli serve più per controllare gli esperimenti sull'attore che per approdare a un vero spettacolo. La dittatura staliniana lo trasforma in un rigido simbolo del realismo in teatro, forzatamente contrapponendolo a registi d'avanguardia come Mejerchol'd, accusati di formalismo, di deviazione dalle linee di partito. Nel 1937 conclude il primo volume del suo lavoro sull'attore, Il lavoro dell'attore su se stesso (che esce pochi mesi dopo la morte, alla fine del 1938), e ha pronta una gran quantità di materiali per il seguente, Il lavoro dell'attore sul personaggio.

Secondo Stanislavskij l'attore giunge alla creazione solo se riesce a dominarsi e a concentrare tutta la propria sostanza corporea e spirituale, se allenta e rilassa la tensione dei muscoli, se sottomette alla volontà l'apparato fisico. Uno dei primi concetti che Stanislavskij propone è il `se', da cui parte tutto il processo creativo: il `se' è la condizione fittizia in cui l'attore deve agire per rappresentare. La finzione, introiettata, provoca una reazione reale, che realizza lo scopo prefisso, contenuto nel `se'. Dunque il `se' è un'ipotesi di lavoro su un avvenimento supposto: obbliga l'attore a reagire con un'azione reale a una circostanza immaginaria. Altro concetto, le `circostanze date': sono l'intreccio, i fatti, gli avvenimenti, l'epoca, il momento, il luogo dell'azione e quello che noi come interpreti aggiungiamo sia come interpretazione sia come allestimento (scenografie, luci, suoni, rumori). Il `se' e le `circostanze date' sono l'uno il complemento delle altre: il `se' dà l'avvio all'azione, le `circostanze date' la completano, la giustificano. L'immaginazione è in questo senso elemento fondamentale del mestiere dell'attore, perché l'autore raramente indica in modo completo le situazioni in cui vivono i suoi personaggi. Le didascalie e le indicazioni devono essere completate dall'attore, visualizzate con estrema precisione. L'insieme di queste visualizzazioni, che devono essere ininterrotte (una specie di film da proiettare continuamente sullo schemo interiore dell'attore), costituisce la `linea' del personaggio. Altro elemento fondamentale, l'attenzione. Per evitare distrazioni l'attore deve esercitare l'attenzione, concentrandosi su singoli oggetti in scena (`oggetti-punto'), fino ai quattro `cerchi di attenzione' (piccolo, medio, grande, massimo): partendo da una zona limitata (un tavolo con i suoi oggetti) l'attore deve arrivare a comprendere tutto lo spazio scenico, ma appena i contorni del cerchio si confondono bisogna immediatamente restringere il cerchio, limitandolo agli oggetti che sono a portata dell'attenzione visiva dell'attore. La teoria dei `cerchi' è connessa con quella della `solitudine in pubblico': l'attore deve saper raggiungere, pur in presenza di centinaia di spettatori, un assoluto isolamento. Uno dei nemici più implacabili dell'attore nell'esercizio del suo mestiere è la tensione o contrazione muscolare, che può manifestarsi in un punto qualsiasi del corpo: corde vocali, con conseguente raucedine, abbassamento di voce, gambe, mani, soprattutto viso che si contorce in smorfie, gonfiori, tic ecc.; la lotta a questo difetto deve essere costante, non solo durante gli spettacoli ma anche fuori scena, nella vita normale. Un concetto fondamentale del metodo Stanislavskij è quello della `memoria'. Esiste una `memoria esteriore', che permette all'attore di ripetere meccanicamente una scena ben riuscita, e una ben più importante `memoria emotiva', che lo aiuta a portare in scena la propria riserva di emozioni; dunque quanto più la `memoria emotiva' sarà ampia, forte, tanto più ricca e completa sarà la sua creazione. Perciò fondamentale per l'attore è creare delle `riserve', ossia ampliare la sfera delle emozioni attraverso letture, ricordi, viaggi, visite a musei, e soprattutto con incessanti rapporti con i propri simili. Per arrivare al personaggio l'attore deve ottenere, come si è detto, una `linea ininterrotta', lavorare con ricordi, situazioni immaginate, sogni, partendo dalla cosiddetta `toilette dell'anima' (rilassamento muscolare, creazione di un piccolo cerchio di attenzione, ripasso dei `se' e delle `circostanze date', concentrazione sul tema principale). Il tema principale deve essere presente per tutta la durata dello spettacolo a tutti gli interpreti, ognuno dei quali lo filtra attraverso il proprio io, lo assimila attraverso la propria sensibilità: i `se' e le `circostanze date' assumono un senso solo quando trovano la loro relazione con il tema principale. Uno dei punti nevralgici del sistema è il `tempo-ritmo': ogni nostra azione, passione, sensazione, nella vita come sulla scena, è regolata da un tempo-ritmo, a cui di solito non prestiamo attenzione. L'attore invece deve sviluppare al massimo un metronomo interiore, che lo aiuta a sentire intuitivamente in modo esatto quello che dice e fa in scena. Molti testi teatrali hanno diversi tempi-ritmi combinati insieme (i personaggi cechoviani hanno spesso ritmi esteriori lentissimi e ritmi interiori agitatissimi). Due sono per Stanislavskij i grandi processi che sono alla base dell'interpretazione: quello di personificazione e quello di reviviscenza. Il processo di personificazione parte dal rilassamento muscolare, per poi proseguire con lo sviluppo dell'espressività fisica (ginnastica, danza acrobatica, scherma, lotta, boxe), la plastica, l'impostazione della voce (respiro, canto), la dizione (studio della fonetica, dell'intonazione), logica e coerenza delle azioni fisiche, caratterizzazione esteriore. Il processo di reviviscenza parte dalle funzioni dell'immaginazione (il `se', le `circostanze date') e prosegue con la divisione del testo in sezioni (all'interno delle quali vengono identificati i `compiti' da eseguire), con lo sviluppo dell'attenzione, l'eliminazione dei cliché, l'identificazione del tempo-ritmo. La reviviscenza è fondamentale perché tutto ciò che non è rivissuto in modo autentico resta inerte, meccanico, inespressivo. Ma non basta che la reviviscenza sia autentica; deve essere in perfetta consonanza con la personificazione. Talora avviene infatti che l'attore abbia una reviviscenza profonda, ma la deformi con una personificazione grossolana, dovuta a un apparato fisico non allenato, incapace di trasmettere quello che l'attore sente. Non c'è attore che crei per ispirazione divina: più l'attore ha talento, più si preoccupa della tecnica soprattutto interiore. Il sistema non è un metodo di recitazione, è un allenamento, attraverso cui si può raggiungere la creazione. Per quanto riguarda la seconda parte del sistema, la creazione del personaggio, Stanislavskij indica tre tappe: 1) la conoscenza (prima lettura, in cui l'attore deve lasciar affiorare immagini, ricordi, pensieri, associazioni; analisi in tre direzioni: approfondimento del testo, ricerca di suggerimenti non contenuti nel testo ma deducibili da accenni o da altri materiali, lavoro di `contatto' tra mondo interiore dell'attore e del personaggio); 2) la reviviscenza, sollecitata dai compiti (sia meccanici sia razionali sia emozionali); 3) la personificazione. Negli ultimi anni Stanislavskij rivoluziona questo schema tripartito per dare la precedenza, nella costruzione del personaggio, alle `azioni fisiche': consiglia di riprodurre l'intreccio esteriore, episodio per episodio, con semplici azioni fisiche, evitando i compiti troppo difficili, ricercando la logica e la coerenza a partire dal gesto. Non più dunque una lettura approfondita del testo, ma una serie di gesti (relativi a una condizione data) che sollecitano la giusta reazione interiore: non è infatti possibile agire all'unisono col personaggio e sentire in dissonanza con esso. Solo quando si raggiunge la sensazione di `essere' nel personaggio si può affrontare lo studio più dettagliato del testo. In conclusione si può affermare che l'importanza del sistema sta soprattutto nel fatto che per la prima volta il processo creativo dell'attore viene sottoposto a un'analisi rigorosa da parte di un competente, attore lui stesso, capace di utilizzare nella sua analisi alcuni principi della moderna psicologia: ancor oggi in Europa e in America qualsiasi teoria del lavoro dell'attore fa riferimento ai lavori di Stanislavskij.