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Commedia dell'Arte
Con la denominazione onnicomprensiva di Commedia dell'Arte si definisce il teatro comico
italiano `di mestiere' che, basandosi sulle risorse vocali-mimico-gestuali dell'attore
professionista, si afferma dal Cinquecento al Settecento in contrapposizione al teatro
aulico e accademico, caro ai dilettanti di estrazione aristocratico-cortigiana. Erede del
giullare medioevale e del perseguitato istrione itinerante, il comico dell'arte recitava
con la maschera `soggetti' che fissavano soltanto i momenti essenziali dello spettacolo,
consentendo ampi spazi all'improvvisazione dell'interprete. Di qui le concomitanti
definizioni di `commedia all'improvviso' o `a soggetto', addirittura `a braccia'. Elemento
fondamentale della Commedia dell'Arte è l'identificazione di ogni singolo attore in uno
specifico `tipo', ciascun personaggio conservando una fissità di fondo ed esprimendosi
nel dialetto nativo (o `bravosamente' assimilato), rispecchiante il plurilinguismo della
frammentazione geopolitica dell'Italia rinascimentale. L'apparente paradosso sta nel fatto
che la Commedia dell'Arte si affermò sulla scia dei canoni retorici della commedia in
senso lato, restaurati dall'archeologia umanistica. Fu la letteratura drammatica
restaurata da Machiavelli, Ariosto, Aretino, Ruzante a non poter alla lunga rinunciare
all'apporto dei comici di tradizione municipale con relative pantomime, giochi di
destrezza, varianti canore e buffonesche. In definitiva fu la commedia di matrice
umanistica a dare ampie possibilità agli attori professionisti inducendoli, per
contrasto, alla sempre più accentuata tipizzazione del personaggio, così da rendere di
immediata comprensione la metafora scenica anche al pubblico più incolto, facilitato
dalla ripetitività
del `ruolo'. Tre furono, all'origine, i personaggi-chiave degli
innumerevoli canovacci e scenari: il Vecchio, l'Innamorato, il Servo. Ma poi le varianti
si moltiplicarono vorticosamente, sicché al veneziano `il Magnifico', alias Pantalone de'
Bisognosi, si aggiunse il bolognese Dottore (Graziano e poi Balanzone), mentre lo Zanni
bergamasco dapprima si sdoppiò in primo e secondo Zanni per poi parcellizzarsi negli
innumeri Brighella, Truffaldino, Arlecchino e addirittura napoletanizzarsi in
Coviello,
Pulcinella e francesizzarsi in Scapino, per tacere degli Innamorati diventati falange. Ai
prototipi cinquecenteschi si aggiunsero ulteriori maschere, a cominciare dai vari Capitani
più o meno `bravosi', nel cui ruolo eccelse Tiberio Fiorilli `Scaramuccia'. Nel contempo
si moltiplicavano le raccolte di `soggetti' per comodità delle grandi compagnie (dei
Gelosi, dei Confidenti, degli Accesi, degli Uniti), costrette a fare i conti con i rigori
della Controriforma. `Gli Italiani' - come furono tout court ribattezzati i comici
- dilagarono in Francia, Spagna, Austria e in tutta Europa, anche per merito di
attori-autori come Francesco, Giovan Battista e Isabella Andreini, Flaminio Scala, Pier
Maria Cecchin, Silvio Fiorilli. Tra la fine del secolo scorso e l'inizio del Novecento si
manifesta, in ambito letterario, un nuovo interesse per la Commedia dell'Arte Fra i
numerosi saggi che vengono pubblicati, quello di L. Rasi (I comici italiani,
1897-1905) influenza G. Craig il quale, a Firenze, dà vita a un progetto teatrale aperto
agli aspetti più interessanti della Commedia dell'Arte: la maschera e l'improvvisazione
che costituiscono le basi di una forma scenica che si contrappone per sua natura al teatro
di parola. Parallelamente, Copeau, nella sfera dell'attività teatrale parigina del suo
Vieux-Colombier, si dedica con profondo interesse alla gestualità e alla recitazione
(principi fondanti della Commedia dell'Arte), concentrandosi sullo studio delle opere di
Molière. Dopo essere entrato in contatto con il lavoro di Craig, da cui prenderà le
distanze, Copeau progetta un lavoro teatrale teso a far rivivere il clima giocoso della
Commedia dell'Arte nell'ambito di temi legati alla contemporaneità. Il progetto di Copeau
- sostenuto dall'attività della compagnia da lui fondata, tra cui spiccano i nomi di C.
Dullin e L. Jouvet - si concentra soprattutto sullo studio delle maschere e sulla loro
rivisitazione in chiave moderna. Lasciato il Vieux-Colombier, tra il 1925 e il 1929 Copeau
continua il suo progetto in un piccolo villaggio dove, con i suoi attori, forma una nuova
compagnia (i Copiaus) con la quale propone a un pubblico non preparato al teatro
spettacoli che riprendono le idee formulate già a Parigi. Dal suo insegnamento prende
vita lo studio teatrale del mimo, di cui si ricordano soprattutto i lavori di E. Decroux e
M. Marceau che tanta parte avranno sullo sviluppo del teatro contemporaneo. Un vivo
interesse per la Commedia dell'Arte si manifesta anche in Russia già dal 1914, quando
esce il saggio storico di K. Miklasevskij a essa dedicato (letto, tra l'altro, anche da
Copeau, nella sua traduzione francese). In Russia l'attenzione è concentrata soprattutto
sull'uso delle maschere che costituiscono le basi di un nuovo teatro: si ricordano i
lavori di Evreinov, di Mejerchol'd (La sciarpa di Colombina da Schnitzler e Don
Giovanni di Molière, 1910) e, successivamente, di Tairov (Il velo di Colombina,
1917) e di Vachtangov (La principessa Turandot). In Italia la Commedia dell'Arte
influenza i lavori di S. Tofano (che crea la famosa maschera del signor Bonaventura) e di
A.G. Bragaglia. Nel dopoguerra gli artisti che hanno attinto alla C.dell'A. sono, tra gli
altri, P. Poli e G. De Bosio, senza contare gli allestimenti dell'Arlecchino servitore
di due padroni di Strehler dal 1947 a oggi.
attori (draontes),
ovvero a persone che agiscono. Durante il Medioevo, comparve la formula `dramma sacro' o
`dramma liturgico', che costituì il nucleo originario del teatro religioso, intorno
all'anno mille, e che era collegata alla liturgia pasquale. Soltanto con il Settecento e
con l'Ottocento, il termine dramma fu usato per indicare un preciso genere teatrale,
legato a una vera e propria riforma del teatro, che coinvolse uomini come Diderot e
Lessing ai quali dobbiamo la nascita del `dramma borghese': un genere che aveva come punto
di riferimento l'affermarsi di una diversa classe sociale, che divenne fonte di
ispirazione del nuovo teatro. Compito del dramma, e quindi del drammaturgo, non era
soltanto quello di aderire a schemi presi in prestito dalla realtà circostante, né di
adeguare il linguaggio del teatro a quello della vita, ma la scelta di una medietà tra
classe elevata e classe media, tra lingua alta e lingua bassa, che favorisse una struttura
naturale, non in quanto copia della natura, ma in quanto mediatrice dei comportamenti
quotidiani. Con Diderot e Lessing, il dramma aderì a una istanza codificatrice, ovvero a
un discorso teorico attorno a parametri letterari e drammaturgici. Ciò che agli autori
importava non era il fatto che i personaggi fossero borghesi, quanto l'impianto sociale,
dentro il quale i personaggi si muovevano e instauravano delle relazioni. La famiglia
diventò il microcosmo di una situazione più universale, un vero e proprio laboratorio di
sperimentazione per il dramma Quando si arriva al `dramma naturalista', si assottiglia il
diaframma tra rappresentazione della realtà e realtà; i suoi assertori, con in testa
Zola, portarono alle estreme conseguenze i risultati di Diderot e Lessing; il dramma si
caricò di verità, rappresentando un uomo per mezzo di un uomo, un oggetto per mezzo di
un oggetto, fino ad arrivare ai famosi quarti di bue veri, messi in scena da Antoine, che
rimandano alla teoria della reviviscenza di Stanislavskij. Accadde, così, che il `dramma
naturalista', per essere incollato alla realtà, sbilanciò le sue attenzioni verso la
scena, che si arricchiva sempre più di verità e che diventava il punto di riferimento
primario, al quale occorreva adattare anche la recitazione. Quando sulla scena irrompono
autori come Ibsen, Strindberg, Hauptmann, Pirandello, Brecht, O'Neill, muta la stessa
nozione di dramma che, per essere distinta dalla precedente, è affiancata dal termine
`moderno' e teorizzata da Lukacs e Szondi. Anche il `dramma moderno' ha come punto di
riferimento la borghesia, essendo, in fondo, il risultato più problematico del `dramma
borghese', un problematicismo, però, che si arricchisce di tensioni oniriche,
mistico-religiose, dall'affermarsi dell'epicizzazione che mette in crisi i caratteri di
assolutezza che lo avevano contraddistinto. Secondo Szondi, il dramma, come forma, rimase
lo stesso: divenne `moderno' a causa dell'inserimento di una tematica epica, all'interno
della forma tradizionale. Certamente perché esista un dramma è necessaria una
collisione, ovvero un conflitto che può essere generato o da noi stessi, dal nostro mondo
interiore (dramma analitico), da forze metafisiche (dramma onirico), da scontri storici
(dramma storico), da disturbi mentali (dramma patologico), o da conflitti (dramma
intimista). Il dramma, avendo origini borghesi, si differenzia dalla tragedia, perché
ricerca le sue radici non nella morte, ma nella vita. Ai giorni nostri, il termine dramma
ha assunto un significato più vasto e lo si riferisce al teatro di parola, il cui testo
diviene un pretesto per la rappresentazione, che ne allarga la visione e lo adatta ad una
molteplicità di espressioni.
tragedia
Nel 1911 l'esercito italiano organizza la sua prima spedizione
aerobellica contro l'esercito turco sul fronte libico: l'evento fu a lungo preparato e
lungamente commentato sui giornali dell'epoca. Nello stesso anno Ettore Petrolini debuttò con la celebre parodia dell'Amleto
scritta in coppia con il poeta Libero Bovio, rischiando l'arresto con l'accusa di
vilipendio alle patrie lettere (l'Amleto originale era stato attribuito dai
gendarmi presenti in sala a Vittorio Alfieri). In questa singolare ma non casuale
coincidenza si condensa il rapporto del secolo Ventesimo con la tragedia teatrale. Tutto
il Novecento è segnato da una relazione che si potrebbe definire `industriale' con la
morte e con la tragedia: la crudezza dei conflitti bellici internazionali (che hanno
appunto il loro prologo con la guerra italo-turca), il regime fascista, nazista e
stalinista, le guerre coloniali e, infine, il diffondersi, sul finire del secolo, del
cosiddetto principio della `pulizia etnica' hanno imposto al mondo occidentale un radicale
ripensamento del valore di ciò che era considerato `tragico' nella tradizione culturale e
teatrale dalle epoche greca e romana fino a tutto il secolo
Diciannovesimo. In buona
sostanza si può riassumere il senso tragico tradizionale nella contrapposizione fra un
individuo e un'entità sociale, divina o spirituale collettiva. Da Eschilo a Shakespeare a
Manzoni la tragedia assume stilisticamente i connotati di questo conflitto in cui, almeno
da un lato, l'elemento individuale è assolutamente indispensabile. La storia sociale del
Novecento consta sostanzialmente nell'impossibilità di questo conflitto: il ruolo
dell'individuo, le specificità che ne fanno qualcosa di unico e irripetibile sono negati
dalla riproducibilità industriale della morte di fronte alla quale non si è esseri
individuali ma numeri di una massa più o meno indistinta. La coscienza o la percezione di
questa mutata realtà è ciò che caratterizza e segna profondamente la sopravvivenza del
senso tragico, a teatro, nel Novecento. Essa, infatti, avviene soprattutto attraverso la
rielaborazione di tragedie classiche: vuoi sotto forma parodistica vuoi sotto forma di
riscrittura tout-court. Il caso del processo intentato da Gabriele D'Annunzio contro
Eduardo Scarpetta, autore di una parodia della Figlia di Iorio, rappresenta il
primo sintomo di una situazione nuova e inedita sulla quale si apre il Novecento. L'Amleto
di Petrolini-Bovio è invece il segno dell'avvenuto cambiamento e l'esempio più
significativo di tutto quanto accadde dopo. Petrolini, irridendo le `disgrazie' del
principe danese, irride tanto la pochezza del dubbio di un uomo di fronte ai tormenti di
una società intera, quanto l'abitudine del teatro tradizionale di rappresentare Amleto
come l'eroe irraggiungibile di un conflitto immenso. Mentre nella realtà Amleto veniva
percepito dal pubblico come un ometto turbato da un dubbio da due soldi: com'è possibile
rovinarsi la vita chiedendosi se è lecito uccidere un patrigno se con una bomba aerea o
un cannone ben puntato si può eliminare un'intera comunità di patrigni? La parodia
shakespeariana di Petrolini va nel solco, assai fecondo del Novecento, aperto da Ubu re
di Jarry e perseguito poi da Ionesco nel suo Macbeth e portato alle estreme
conseguenze da Beckett con Catastrofe, la più alta tragedia autenticamente
novecentesca e, contemporaneamente, la più terribile parodia della tragedia classica.
L'altro fenomeno, quello delle riscritture dei classici, si offre come maggiormente
interlocutorio nei confronti della tradizione: da Anouilh a Testori, molti autori teatrali
del Novecento si sono interrogati sulla possibilità di dare nuove vitalità e attualità
al conflitto individuo/entità superiore. Ma, in ogni caso, si tratta di domande e
risposte sommamente (quando non esclusivamente) legate alla contemporaneità che le
produsse. Analogo rilievo andrebbe fatto a quanti tentarono di riprodurre senza
particolari aggiornamenti i meccanismi della tragedia classica (T.S. Eliot); o, ancora, a
quanti pensarono di contestualizzare all'interno delle vicende della seconda guerra
mondiale il tradizionale conflitto (Sartre o Fabbri). Solo a Samuel Beckett può essere
attribuito il merito di aver tentato un superamento consapevole della classicità mediante
l'invenzione del `tragicomico', ossia di un effetto contrastante, tragico e comico allo
stesso tempo, prodotto dalla rappresentazione di tragedie individuali comicamente piccole
(`relative') se riferite alla complessità del mondo.
musical
Se dobbiamo semplificare al massimo, il musical è uno spettacolo composto di canto, danza
e recitazione e interpretato da attori, cantanti e ballerini: talvolta le tre qualifiche
riunite in una sola persona, talvolta ad indicare tre gruppi diversi; musical è un
aggettivo. È, quando definisce uno spettacolo, l'abbreviazione di un musical comedy
(commedia musicale) e questo sarebbe il modo corretto di indicarlo, vuoi in inglese vuoi
in italiano.
Ma la parola musical, ormai, si è spinta oltre e viene usata per indicare il
musical drama (dramma musicale), come lo splendido The Cradle Will Rock di
Marc Blitzstein, per esempio; oppure qualcosa che andrebbe più correttamente definito
come operetta, come Rosalie di Cole Porter. In tempi più recenti la definizione
musical è passata a indicare anche la cosidetta opera rock, come Jesus Christ
Superstar, e altri altri succedanei sia di Andrew Lloyd Webber che della copppia
Boublil & Schönberg, sicché il purista del musical (o almeno della coretta
definizione di musical) rabbrividisce quando sente citare le opere di questi autori come
`unici' esempi di musical Comunque, ormai, la definizione si è abbastanza allargata alle
varie forme di spettacolo che sono all'origine del musical stesso. Se è corretto
affermare che l'origine storica del musical è quel mitico The Black Crook andato
in scena il 12 settembre 1866 al Niblo's Garden Theatre (per la cronaca lo spettacolo
durava cinque ore e mezza!) e nata per caso
dall'unione fra una compagnia di ballo e canto
importata dall'Europa e rimasta senza teatro, con una compagnia di prosa alle prese con
una messa in scena assai più costosa del previsto, bisogna comunque e continuamente
ricordare le origini di spettacolo popolare che ha il musical E qui popolare non ha
affatto la connotazione di `volgare' o `basso'. No, popolare nel senso di rivolgersi alla
massa del pubblico, a un pubblico molto variegato che doveva poter seguire lo spettacolo
come il vaudeville (corrispondente al nostro varietà). Proprio negli Usa si riuniva un
vasto, seppure non ricco di denaro, pubblico potenziale formato di gente che aveva in
comune una grande caratteristica: appartenendo alle etnie più diverse, essendo formato di
immigrati in Usa, facilmente non parlava bene (o affatto) e non intendeva bene (o affatto)
la lingua franca della nazione: cioè l'inglese. Il musical dunque, supera lo
spezzettamento del varietà, lega il pubblico all'interesse per una storia (che traspare
chiaramente nello spettacolo) e lo affascina con lo stesso tipo di emozione circense che
lo aveva colpito nel vaudeville: la bravura degli atleti, la grazia delle ballerine, la
capacità nel canto, e così via. E proprio come nell'Europa del melodramma l'entusiasmo
del pubblico e la generosità dei mecenati avevano concorso a un moltiplicarsi di opere
(di Opere), anche a New York, a Broadway, nasce una tradizione che si diffonde a macchia
d'olio, che porterà gli spettacoli fuori dai confini di Manhattan e in giro per le grandi
e le piccole città degli Usa; e già negli anni '20 certi spettacoli di Broadway
cominciano a raggiungere i teatri del West End a Londra e magari, ma più tardi, altre
città in Europa. Ancora più tardi, il musical, figlio e nipote di forme teatrali nate in
Europa, ai paesi non anglofoni in Europa sta tornando; vuoi tradotto nelle rispettive
lingue, vuoi `sopratitolato' (come l'opera lirica al Metropolitan di New York) vuoi
affidandosi, come alle origini del genere, a quella capacità stessa dello spettacolo di
rendersi comprensibile al pubblico per la sua forma peculiare. Inutile dire che la
diffusione del musical attraverso le versioni che ne ha fornito il cinema di
Holliywood,
ha contribuito alla maggiore conoscenza e popolarità di questo genere. Una distinzione
comunque va fatta quando si parla di musical: è quella tra il classico backstage
musical (musical fra o dietro le quinte), un tipo di spettacolo che racconta se stesso
mettendo in scena la messa in scena di uno spettacolo o qualunque altro pretesto affine:
vedi l'esempio altissimo di The Band Wagon (Spettacolo di varietà si
chiamava il film che ne fu tratto nel 1953) e il musical di tipo narrativo, quando questa
peculiare forma di spettacolo viene scelta per raccontare o tradurre una storia, che può
essere tratta da un romanzo, un ciclo storico o addirittura una commedia, come, per
esempio Man of La Mancha, Camelot o Hello, Dolly!
cabaret
Il genere teatrale che in Italia si diffuse a partire dagli anni
'50 con il nome di cabaret ha
una genesi diretta nel cabaret
francese e nel Kabarett tedesco, fenomeni teatrali minoritari e assai particolari che si
sono evoluti in forme affatto diverse fin dagli ultimi decenni dell'Ottocento. In entrambi
i casi il nome, almeno in origine, definiva strettamente i luoghi, piccoli ed esclusivi,
nei quali avevano luogo spettacoli trasgressivi o comunque
anticonformisti. Il cabaret
francese più celebre fu lo `Chat noir' di Parigi, un piccolo locale che ebbe molto
successo fino alla fine del secolo scorso e nel quale si esibivano artisti d'avanguardia,
comici e chansonnier. La fortuna così ampia e inattesa di questo locale ne snaturò alla
fine la portata alternativa, fino a trasformarlo in un luogo di rappresentazioni comiche e
musicali piuttosto commerciali. Stessa sorte toccò a tutti quei locali che, a imitazione
dello `Chat noir', erano nati a Parigi a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento. In
Francia l'antica tradizione corrosiva e minoritaria del cabaret riprese vigore dopo la
fine della seconda guerra mondiale, quando il circolo degli intellettuali impegnati,
variamente legati a Jean-Paul Sartre e all'esistenzialismo, cominciò a frequentare nel
quartiere di Saint-Germain-des-Prés i locali nei quali si esibivano artisti come Edith
Piaf, Juliette Gréco, Yves Montand. Il ruolo artistico e sociale del Kabarett in Germania
fu affatto diverso. Minoritario e trasgressivo, questo genere di spettacolo fu al tempo
stesso palestra di grandi talenti teatrali (da Max Reinhardt a Bertolt Brecht) e luogo di
grande attivismo politico. Il Kabarett, infatti, rappresentò il più rilevante luogo di
sviluppo di attività antinaziste, almeno fino ai tempi immediatamente successivi alla
presa del potere da parte di Hitler che, una volta al vertice del Reich, vietò tale
genere di rappresentazioni. D'altra parte, gli intellettuali ebrei, comunisti e
omosessuali furono i più assidui frequentatori dei Kabarett di Monaco e Berlino: quei
locali piccoli e fumosi venivano considerati come territori liberi, nei quali esprimere
disagi sociali e dissensi politici. Karl Valentin e Kurt Tucholsky furono i due artisti di
maggior rilievo di quel mondo, a cavallo tra l'inizio del Novecento e il nazismo. Comico
puro dalla vena assurda, Valentin viene considerato sovente il Petrolini tedesco, anche
per la sua spiccata vena parodistica e per quel suo dialetto bavarese che ne rendeva
inconfondibili le caratterizzazioni: nella sua orchestrina, sul finire degli anni '10,
suonava il clarinetto il giovane Brecht. Il caso di Tucholsky, invece, è più complesso
da mettere in relazione con altri fenomeni simili dell'epoca: artista corrivo, sempre al
limite della volgarità, egli era un anarchico non solo politicamente ma anche in termini
strettamente teatrali; così finì per mescolare generi e suggestioni, prediligendo ogni
sorta di travestitismo scenico. In Italia non è mai esistita una forma di spettacolo
apertamente e consapevolmente antifascista, e il cosiddetto `teatro politico' del
dopoguerra ha seguito altre strade rispetto a quelle deliberatamente minoritarie del
cabaret francese e del Kabarett tedesco. Solo a partire dagli anni '50, specie in alcuni
piccoli locali milanesi, ha preso corpo una piccola tradizione cabarettistica
esteticamente trasgressiva e politicamente impegnata. Nella prefazione al volume La
patria che ci è data (1974), che raccoglie testi stravaganti scritti apposta per il
cabaret, Umberto Simonetta nota: «Pur non vantando le tradizioni del grande Kabarett
mitteleuropeo o delle `caves' parigine, il cabaret italiano, saldati i debiti con
l'Espressionismo, può godere di dignitoso credito». Pressoché archiviati gli spettacoli
di rivista e varietà negli anni '60, soppiantati dalle commedie musicali di Garinei e
Giovannini o da rassegne di strip-tease, o dal teatro dialettale (non a caso i grandi
comici tornano alle radici paesane: Nino Taranto rappresenta commedie napoletane di
Viviani, Dapporto ripropone i classici in genovese di Gilberto Govi, Macario si fa
scrivere da Amendola e Corbucci intrecci piemontesi con titolo in rima), la comicità
fatta di critica e satira social-politica imbocca la strada di scantinati o localini con
pedana, due-quattro riflettori, pianoforte in un angolo, e maccheroncini fumanti (e
gratis) a mezzanotte, spesso serviti dagli stessi attori, per un pubblico che Simonetta
descrive forse con eccessiva cattiveria: «Mezzecalzette con il bicchiere di whisky
stretto nella destra e chiavi della macchina sinistramente tintinnanti nella sinistra, con
ridicolo sbandieramento del relativo portachiavi tutto d'oro: mercanti di provincia,
fallofore, attori sparlanti, belle signore, bande di architetti e di funzionari Rai».
Comunque, anticipato da alcuni spettacoli teatrali `da camera' di successo (Dito
nell'occhio e Sani da legare di e con Parenti-Fo-Durano; Carnet de notes
dei Gobbi, cioè Caprioli-Bonucci-Salce e poi Franca Valeri), il cabaret nasce a Milano,
nel 1963, al Derby club, locale di viale Monte Rosa (sulla strada per l'ippodromo di San
Siro, ed ereditandone nel tempo i frequentatori, nel bene e nel male: ecco spiegato il
nome sull'insegna) grazie al ristoratore Bongiovanni e al jazzista Intra, cui si affianca
subito Franco Nebbia, straordinario pianista-entertainer: un `classico' il suo tango con
versi di corrive citazioni latine, da `alea iacta est' a `mutatis mutandis'. Con Intra e
Nebbia, un primo manipolo di talenti: il musicista Gino Negri e le attrici Liliana Zoboli
e Velia Mantegazza, la giovane `cantante della mala' Ornella Vanoni e Enzo
Jannacci. Nel
settembre 1964 si trasloca e si apre il Nebbia club, con una compagnia `stabile' composta
da Duilio Del Prete, Liù Bosisio, Sandro Massimini, Lino Robi attore comico dalla statura
ridotta. Ospiti del Nebbia club, che chiuse nel '68 e che aveva privilegiato un taglio
più politico ed esclusivo rispetto al Derby, furono Carmelo Bene, Maria Monti, Piera
Degli Esposti, Giorgio Gaber, Mariangela Melato. Il Derby continua, e in pedana sfilano il
veneziano Lino Toffolo, il piemontese Felice Andreasi e il pugliese Toni
Santagata, Cochi
e Renato (La vita l'è bela), Giorgio Porcaro (inventore del dialetto
pugliese-meneghino «milanès a cient pe' cient», che sarebbe stato ereditato e più
ampiamente divulgato da Diego Abatantuono). Nel 1970-71, nel centro storico della città,
si apre il Refettorio, gestito da Roberto Brivio, uno dei Gufi, che cerca di contrapporsi,
a volte con programmazioni notevoli (I quattro moschettieri con Nunzio
Filogamo)
all'ormai lanciatissimo locale di viale Monte Rosa. Dopo Milano, Roma. Nel 1965 Maurizio
Costanzo, fecondo autore di commedie e monologhi comici, apre nella capitale, in via della
Vite, il Cab 37; scopre e lancia Paolo Villaggio, Gianfranco D'Angelo, Pippo Franco, il
cantastorie Silvano Spadaccino. Costanzo con il suo gruppo si trasferì poi al Sette per
otto, in via dei Panieri al 56, appunto. E qui Costanzo fece debuttare un suo coinquilino
di via de' Giubbonari, «un giovanotto alto e magro che recitava e cantava accompagnandosi
alla chitarra, con un talento di showman di cui molti poi vanteranno la scoperta: era
Proietti Luigi detto Gigi» (testimonianza di Enrico Vaime, da Il varietà è morto,
1998). A Roma, nel 1965, nasce con fortuna Il Bagaglino, guidato da Mario Castellacci e
Pierfrancesco Pingitore, con Pippo Franco, Leo Gullotta e Oreste Lionello (la voce
italiana di Woody Allen). La compagnia si è trasferita dal 1974 al salone Margherita.
Spettacoli di vena qualunquista e reazionaria, sempre ben accolti dal cosiddetto
`generone' romano; da anni vengono poi trasposti in tv, con contorno di sosia di uomini
politici da sbeffeggiare. In questi anni fu proprio dalla differenza di contenuti tra i
locali milanesi e quelli romani che nacque la distinzione, abbastanza vicina al vero, che
porterà a parlare di cabaret di sinistra a Milano e cabaret di destra a Roma.
Protagonisti di spettacoli di cabaret negli anni 1964-69 furono i Gufi, quartetto milanese
in calzamaglia nera composto da Roberto Brivio, Gianni Magni, Lino Patruno, Nanni
Svampa.
Esordio in marzo-aprile 1964 al Captain Kidd di Milano, stagioni al Derby di Milano e al
Los Amigos di Torino, poi il Teatrino dei Gufi si sposta in palcoscenico con alcuni
spettacoli di successo: Non spingete scappiamo anche noi e Non so, non ho visto,
se c'ero dormivo di Gigi Lunari. Tra gli autori di testi per cabaret, Silvano
Ambrogi,
Sandro Bajini, Roberto Mazzucco, Enrico Vaime, Saverio Vollaro.
Autori-interpreti:
Maurizio Micheli, Enzo Robutti, Walter Valdi (ex avvocato di giorno e cabarettista di
notte; piccolo, e rotondetto, con occhiali spessi un dito, canta e recita storie del
milieu milanese: Il palo della banda dell'Ortiga; tra i suoi aforismi: «La torre
di Pisa... E se avesse ragione lei?»). A Milano ribalta affermata del cabaret è, dal
1986, lo Zelig di viale Monza, che sotto la guida artistica di Gino e Michele e
organizzativa di Giancarlo Bozzo ha rivelato Paolo Rossi, Silvio Orlando, Claudio Bisio,
Gene Gnocchi, Francesco Salvi, Sabina Guzzanti, Elio e le storie tese, Caterina Sylos
Labini e decine di altri comici, avviandone o accelerandone il successo multimediale (tv,
cinema, musica e teatro). Ma da Zelig sono passati in questi anni centinaia di comici,
favoriti dal fatto che, a differenza di altri cabaret che lo hanno preceduto, il locale ha
una programmazione che viene cambiata ogni settimana. A Zelig hanno lavorato anche comici
già affermati come Zuzzurro e Gaspare, Giorgio Faletti, Enzo Iacchetti, Carlo
Pistarino,
Sergio Vastano, Massimo Boldi, Teo Teocoli, Gianni Cajafa, Nanni Svampa, Enzo Jannacci
(che a sua volta aprirà per pochi anni, sempre a Milano, il Bolgia umana) e attori o
musicisti apparentemente lontani dal cabaret come Marco Paolini, il duo
Robledo-Delbono,
Roberto Vecchioni, Rossana Casale e il suo gruppo jazz. Interprete poi di testi in stile
cabaret, Beppe Grillo, che però ha svolto la sua carriera prima sui teleschermi e, quando la
satira è diventata rovente, nei palasport e nelle piazze. Anche Roberto Benigni esordì
nel cabaret, con Cioni Mario di Gaspare fu Giulia (1976). Da ricordare poi due
spettacoli di cabaret rappresentati in teatro: Come siam bravi quaggiù (1960) e
Resta così o sistema solare (1961) di Vittorio Franceschi e Sandro Bajini, con
Franceschi e Massimo De Vita. E, a proposito di cabaret ospitato su un palcoscenico
teatrale, va menzionato il Ciak di Milano, un cinema di periferia che, con geniale
intuizione, il grande impresario Leo Wächter (portò per primo in Italia i Beatles e
Sinatra, Armstrong e Moiseev, il Circo di Pechino e il coro dell'Armata rossa) trasformò
nel 1977 in teatro `di cabaret', ospitando, davanti a platee affollate di giovani, tutti i
`nuovi comici' accanto a Franca Rame e al Circo immaginario di Victoria Chaplin. Dalla
stagione 1997-98 il locale ha come direttore artistico Maurizio Costanzo. Il cabaret ha
ottenuto il riconoscimento ministeriale alla pari di altre forme teatrali soltanto nel
1975.
ricerca teatrale
La ricerca teatrale del secondo dopoguerra riprende l'istanza che già aveva
caratterizzato le avanguardie storiche della prima metà del secolo, ovvero, aldilà delle
differenti opzioni poetiche, rigetta la concezione ottocentesca della scena al servizio di
un testo scritto, e dunque di un'arte al servizio di un'altra, per affermare l'autonomia
della scena rispetto a qualunque messaggio elaborato altrove. In questa prospettiva
l'autore teatrale è colui che compone l'evento scenico, sia esso derivato o meno da un
testo preesistente. Spesso è difficile decidere se una personalità, poniamo un regista,
appartenga all'uno o all'altro fronte, né aiutano molto le relative dichiarazioni di
poetica, visto che i creatori hanno la tendenza a esprimersi in termini teorici secondo
schemi già consolidati, più per giustificarsi che per lanciare nuove proposte. Stabilito
dunque che la ricerca autentica si svolge in scena, si possono distinguere tre questioni
principali: la composizione scenica, l'organizzazione dello spazio e la recitazione
(l'attore). Ovviamente si tratta di questioni strettamente connesse tra loro,
distinguibili soltanto per comodità di esposizione. L'istituzione registica, fondamentale
anche nel teatro `tradizionalmente' moderno, ha espresso fino dall'inizio del XX secolo
alcuni degli esponenti più significativi della ricerca teatrale. Personalità come
Vselovod E. Mejerchol'd o Jacques Copeau, pur senza disconoscere l'importanza del testo
drammaturgico, hanno relativizzato l'importanza di quest'ultimo, procedendo a una
composizione scenica in nuovi spazi non teatrali (aperti, per esempio in campagna, o
chiusi, come fabbriche ecc.), alimentata da un intenso lavoro di allenamento e
improvvisazione degli attori, da elevare alla nuova funzione di co-autori. Ma la vera
svolta è quella che avviene nel nome di
Antonin
Artaud. Questi, benché riconosciuto
soltanto a posteriori come il nume tutelare della ricerca del secondo dopoguerra, esprime
nei propri scritti e nelle proprie sperimentazioni sceniche l'istanza più radicale. Il
suo saggio Il teatro e il suo doppio indica in tale doppio, cioè la vita, e nel
suo `rafforzamento' (apparentabile alla volontà di potenza nietzschiana) il vero teatro,
un teatro che non rappresenta ma che si fa azione, fino a produrre un cambiamento organico
tanto nell'attore quanto nello spettatore. Questo cambiamento non è paragonabile a quello
prodotto da una medicina o da una terapia psicologica su un corpo o una mente malati, ma a
un disvelamento della realtà, uno stato che l'autore francese definisce come una
consapevolezza della `crudeltà', suprema legge umana. Il Living Theatre viene fondato da
Julian Beck e Judith Malina alla fine degli anni Quaranta, come il Piccolo Teatro di
Grassi e Strehler. Mentre il secondo può essere considerato forse il massimo teatro di
rappresentazione e interpretazione del secondo dopoguerra, il primo, sia pure inizialmente
proponendo testi classici o contemporanei, rilancia la centralità della scena e cerca di
ritrovare, se necessario anche attraverso la provocazione e il coinvolgimento fisico del
pubblico, il potere di scuotere. Con il Living l'atto teatrale esce dalla dimensione
dell'ascolto per entrare in quella dell'azione (anarchica e non-violenta nel caso
specifico). Così come succederà negli anni Sessanta a
Peter Brook, il Living scoprirà
Artaud soltanto dopo che alcuni dei propri memorabili spettacoli avranno suggerito ad
alcuni critici e spettatori una coincidenza tra la sua poetica e l'istanza dell'autore
francese. E così una teoria, ma soprattutto una visione, formulata negli anni Trenta è
diventata in tutto il mondo il sigillo del rinnovamento, la formula capace di riassumere
una nuova funzione del teatro e di prefigurare una diversa responsabilità artistica ed
etica dei suoi autori. Dalla fine degli anni Cinquanta, ma soprattutto nei Sessanta, in
tutto il mondo prende corpo un movimento di ricerca teatrale disomogeneo nelle poetiche ma
basato sull'assunto comune dell'azione (artistica o politica, oppure artistica e politica)
che sostituisce la rappresentazione e l'ascolto, e del teatro che divorzia dallo
spettacolo. Questo nuovo teatro non è più inteso come un'attività vicaria della lettura
e della didattica, bensì come la meditazione condivisa (l'espressione è di Brook) di una
comunità provvisoria riunita attorno a un oggetto artistico che spiazza i clichè
teatrali e le abitudini percettive. Dagli Usa (si pensi a Allan Kaprow, a John Cage o
Merce Cunningham e via via al movimento anche drammaturgico che giunge fino a oggi e che
ha in Robert Wilson un esponente universalmente riconosciuto) alla Polonia (dove si
segnala Tadeusz Kantor, attivo anch'egli fino dagli anni Quaranta, uno dei maggiori autori
teatrali del dopoguerra), dal Giappone (dove oltre alla `danza delle tenebre' Butoh si
registra un ricco fermento che va dal teatro d'artista - si pensi almeno a Shuji Terayama
e a Tadashi Suzuki - all'agit-prop) fino alla Gran Bretagna, alla Francia e la Germania,
dove fioriscono molti gruppi teatrali interessanti che il lettore trova descritti nelle
apposite voci, all'Italia naturalmente, si sperimenta un teatro basato su materiali,
tecniche e funzioni diverse da quelle che caratterizzano il modello occidentale
sette-ottocentesco, il cosiddetto `teatro borghese'. Nel nostro paese sono innanzitutto
alcuni registi come A. Trionfo, per citare solo uno dei nomi più significativi, poi
alcuni attori come C. Bene, L. De Berardinis e C. Cecchi, o degli artisti visivi come C.
Remondi e R. Caporossi, M. Ricci e G. Nanni, a inaugurare, in aperta polemica con il
Piccolo Teatro di Milano, i più significativi filoni di ricerca. A essi si può
affiancare Dario Fo per l'aspetto politico e di controinformazione, anche se il
drammaturgo-attore lombardo è terribilmente sopravvalutato per quanto riguarda la
scrittura. Per merito di queste personalità si stabilisce a un diverso rapporto con i
testi classici e moderni, non più `letti sulla scena' ma vagliati con una sensibilità
contemporanea, la stessa che poi altri registi come L. Ronconi, M. Castri o F. Tiezzi, per
esempio, declineranno anche nelle concezioni scenografiche o nell'uso di spazi non
tradizionali. Mentre gli attori-autori sviluppano, in base alle rispettive sensibilità e
coordinate culturali, non solo una rivisitazione ricca di sorprese del repertorio (basti
pensare a come diversamente tra loro hanno affrontato Shakespeare), ma anche un'arte
attorica originale, che conta esponenti di rilievo anche nelle generazioni successive
(basterà fare il nome di Sandro Lombardi). E infine si pensi al teatro creato dagli
autori che privilegiano l'aspetto visivo, a sua volta concretizzatosi in esperienze il cui
valore è oggi riconosciuto in tutto il mondo, per esempio quelle che fanno capo a G.
Barberio Corsetti o alla Socìetas Raffaello Sanzio. Certo è da rimpiangere che la storia
non abbia consentito un confronto più stretto e un sincretismo fra i differenti aspetti
della ricerca, mentre si assiste a un deciso revival dell'istituzione spettacolistica
pubblica e privata, nonché della drammaturgia. Purtroppo ciò avviene nel segno del
ritorno alla rappresentazione e a un teatro fatto di `scrittori', `lettori' e `critici' di
messaggi culturali, più gradito a un pubblico abitudinario e più consono agli
orientamenti delle attuali classi dirigenti. Tant'è che un grande maestro come
J.Grotowski si è da tempo ritirato dalla scena per darsi alla ricerca pura, in una sorta
di esilio dorato e tuttavia non privo di riscontri per coloro che della scena continuano a
occuparsi. Alle istituzioni orientate in senso didattico e commerciale e a una
drammaturgia intesa nuovamente come opera che i professionisti della scena sono chiamati a
tradurre fedelmente sono costretti ad adeguarsi gli autori della ricerca. Sempre più
spesso accade che questi accettino di lavorare su commissione, ma con modi e tempi che non
appartengono loro bensì alle strutture tradizionali, emendando il vecchio teatro con
qualche `novità', oppure inserendosi con le proprie opere negli interstizi dei normali
cartelloni, a significare così una marginalità (per quanto lucrosa) e un alibi dei
grandi teatri. Negli altri paesi la situazione è simile, anche se forse meno intricata.
Sembra infatti che aldilà degli incroci sempre più frequenti fra autori della ricerca e
istituzioni maggiori, nella cultura e nel gusto di civiltà teatrali come quella francese
o nordamericana sia più netta e in qualche modo più serena la distinzione tra un
teatro-che-rappresenta-i-testi e un'arte scenica autonoma, che sviluppa la ricerca
attraverso forme e linguaggi del teatro inteso come forma di vita e azione nella vita. Una
controprova della dinamica viziata è costituita dalla quasi totale assenza delle donne da
ruoli di primo piano in questo panorama, assenza dovuta non a una mancanza di talenti ma,
appunto, alla logica generale che domina i meccanismi di produzione e dunque di selezione,
logica prevalentemente maschile. Il secolo sembra chiudersi così con una strana
contraddizione secondo la quale a fronte di un immenso potenziale di creatività artistica
si risponde con una selezione che privilegia l'adattamento e il compromesso con il sistema
della rappresentazione. Ma la lotta continua, con esiti alterni, e della vicenda non
s'intravvede la fine.
Genet, Albee e Pinter i campioni di un
filone dominato dal tema dell'assurdità del vivere contemporaneo. Trasformata in
un'etichetta, la definizione ebbe successo soprattutto per il suo carattere ambiguo, che
serviva a dar nome a una sensibilità comune, nel corso degli anni '50, a un crescente
numero di drammaturghi. Nessuno degli autori in questione accettò mai di rientrare
nell'ambito di un gruppo o di una scuola, ma l'etichetta venne ugualmente applicata nel
campo della critica e del giornalismo teatrale, fino a diventare una categoria
interpretativa. A teatro si può parlare di `assurdo' riferendosi al valore linguistico
più corrente del termine: qualcosa che è contrario alla razionalità, al senso comune e
all'evidenza. Di questo `assurdo' la storia dello spettacolo offre costanti esempi,
poiché si tratta di uno dei principali meccanismi dell'effetto comico. Lo si trova nella
commedia plautina, nelle situazioni della Commedia dell'Arte, nelle serate del circo
ottocentesco, ed è sommamente `assurda' la patafisica di Alfred Jarry, nonché
l'antipsicologia del suo Padre Ubu. Si parla invece di `assurdo' in un senso più
specifico riferendosi all'elaborazione che ne dà la filosofia esistenzialista (si vedano
le considerazioni di Jean-Paul Sartre negli anni '30 e il riflesso che più tardi ne offre
Albert Camus nei romanzi, nel teatro e nella saggistica). Questo orizzonte di pensiero
influenza la crescita di un gruppo di drammaturghi di prevalente lingua francese, che
potrebbe coinvolgere anche Tardieu, Vian e, più tardi, Arrabal o Pinget. Quando,
all'inizio degli anni '50, si esaurisce la spinta politica dell'immediato dopoguerra, e le
trasformazioni delle classi sociali e il processo di decolonizzazione alterano il quadro
dei valori costituiti, nei drammaturghi più sensibili le formule della mimesi realistica
perdono rapidamente significato, e la realtà espressa nei loro lavori diventa illeggibile
secondo schemi tradizionali, e quindi `assurda'. È un percorso che si può immaginare
rappresentato e delimitato da testi come La cantatrice calva di Ionesco (1950) e
Aspettando Godot di Beckett (1953), fino a Terra di nessuno di Pinter (1975).
Esistono tra i lavori di questi autori e di quelli a loro associati delle linee di
convergenza: in primo luogo un uso apparentemente illogico e non comunicativo del
linguaggio. I personaggi che lo adottano sembrano vivere in situazioni astoriche, sciolte
da precisi riferimenti geografici e vincoli temporali. Essi non sanno esprimere una
direzione di vita poiché sfugge loro il senso dell'esistenza, fatto che li pone in una
situazione di immobilità. Il movimento drammatico, nei testi di cui sono protagonisti,
non ha ragione d'essere. Ognuno degli autori citati utilizza tuttavia una diversa
strategia dell'assurdo, da quella nichilista che azzera e deride i significati del testo
(Ionesco) a quella strutturale, che esprime una disintegrazione delle relazioni
interpersonali (Beckett), fino a quella verbale in cui il linguaggio e i suoi vuoti creano
da soli effetti di incoerenza logica (Pinter). Il tempo ha fatto il proprio dovere,
restituendo oggi singolarità a ciò che una certa prospettiva storica tendeva, negli anni
'60, a omologare. Così è stata ridimensionata la scrittura di Ionesco, restituito a un
più congeniale ruolo di scandalista e parodista brillante, acuto rivelatore della
fragilità del linguaggio umano. Beckett si è meritato invece il titolo di grande e
ostinato cantore della tragicommedia dell'uomo del Novecento ("niente è più buffo
dell'infelicità" dice un personaggio di Finale di partita) e della sua totale
perdita della speranza. Dopo aver esercitato l'orecchio nel catturare l'aggressività
della parola, Pinter ha smascherato il ruolo politico del linguaggio, appoggiandosi sempre
più spesso a istanze civili. Genet - lo ha confessato candidamente lo stesso Esslin - è
entrato nel gruppo degli autori dell'assurdo per ragioni strettamente editoriali: un
autore allora così scandaloso avrebbe giovato alle vendite del volume. Accanto alle
istanze politiche di matrice brechtiana, a quelle del realismo psicologico e dello
sperimentalismo linguistico, le istanze del teatro dell'assurdo hanno rappresentato per un
quarto di secolo una delle grandi tentazioni del teatro del Novecento.
teatro epico
Preceduto dalle esperienze di Piscator e Mejerchol'd, il teatro epico venne elaborato da
Bertolt Brecht, che usò il termine per indicare un sistema estetico di messa in scena che
ha come obiettivo primario produrre conoscenza attraverso la narrazione critica di fatti e
situazioni, così da suscitare attraverso il teatro una trasformazione sociopolitica della
realtà. Il teatro epico come forma teatrale si contrappone alla teoria aristotelica
dell'identificazione mimetica e della catarsi, su cui si fondava il naturalismo teatrale
coevo a Brecht; rifiuta l'immedesimazione e l'adesione irrazionale al punto di vista
illusionistico della scena o del personaggio, sia dell'attore sia dello spettatore, e
intende al contrario produrre un effetto di distanziazione (effetto di straniamento) da
ciò che la scena `mostra' attraverso "uno stile di rappresentazione quanto più
possibile freddo, classico, razionale", "facendo appello all'intelligenza"
piuttosto che al sentimento. Modello elementare di questo teatro che `racconta' e non
incarna è "la scena di strada", in cui i testimoni di un incidente narrano come
si è svolto. Divenuto noto in tutto il mondo grazie alle tournée del Berliner Ensemble,
in Italia il teatro epico ha influenzato, per la sua concezione etico-politica del teatro
e per la poetica dello straniamento, l'esperienza della regia critica (Strehler, Castri,
ecc.), dell'animazione (Scabia) e della sperimentazione (Fo e il teatro politico degli
anni Settanta).
artistico e pedagogico di Grotowski e di Barba. Storicamente l'idea del laboratorio
nasce con la fondazione degli Studi del Teatro d'Arte di Mosca di Stanislavskij, dove
lavorano tra gli altri Vachtangov e Mejerchol'd. Presente anche nel progetto di
rinnovamento teatrale tentato da Copeau al Vieux-Colombier, e in particolare con la
fondazione di una comunità teatrale in Borgogna, il laboratorio si configura nel pensiero
di questi grandi maestri del Novecento come la condizione necessaria alla rifondazione
etico-antropologica del teatro, attraverso una messa a nudo e una ridefinizione del lavoro
dell'uomo-attore. Nell'opera teatrale e parateatrale di Grotowski il laboratorio
radicalizza la sua identità di luogo separato, quasi rituale, dove il performer è messo
nelle condizioni di compiere un processo di autorivelazione totale, oltre la maschera
delle consuetudini sociali o interpretative. Nel lavoro sul training dell'Odin Teatret e
in quello più complessivo dentro all'Ista, Barba sviluppa l'istanza laboratoriale di
Grotowski ed elabora una concezione del teatro stesso in termini di laboratorio di gruppo,
dove l'autodisciplina e l'autoformazione permanente divengono specifiche
componenenti della
ricerca teatrale.
Luogo insieme separato e aperto, dove è possibile compiere un incontro
con se stessi e nello stesso tempo istituire relazioni con l'altro (uomini, ambiente,
cultura, tradizioni, ecc.), il workshop costituisce anche l'orizzonte metodologico e
teorico della `animazione' e dei processi di formazione di natura espressiva, festiva,
sociale che si riferiscono al teatro come strumento e modello di elaborazione
dell'esperienza. Dentro al laboratorio il teatro incontra la scuola, il carcere, il
disagio fisico e psichico, individuale e sociale, permettendo, nella sua dimensione
protetta e ludica, ai soggetti coinvolti di dare forma concreta e simbolica alla propria
esperienza. Interno dapprima alla storia dei gruppi teatrali e dei Centri di ricerca
teatrale, oggi il laboratorio teatrale è considerato elemento strutturale non solo della
ricerca e della pedagogia teatrale, ma modello di intervento formativo per ogni approccio
che privilegia la dimensione del corpo, della relazione e del linguaggio simbolico.
teatro naturalista
Movimento centrale dell'arte non solo teatrale della seconda metà dell'Ottocento, il
naturalismo ha anche a teatro in Emile Zola il suo maggiore teorico (Il naturalismo a
teatro, 1881). Mosso dal presupposto di derivazione realista che la verità scenica è
il risultato di un processo di mimesi della vita che cancella il diaframma fra
rappresentazione della realtà e realtà stessa, il teatro naturalista si oppone al
`teatro di convenzione', della piéce bien fait, costruito su intrighi rocamboleschi, e
propugna la poetica della tranche de vie, ovvero della presenza fisica-concreta
della corporeità materiale della vita sulla scena, e della quarta parete, ovvero del
palcoscenico come luogo. In una nuova drammaturgia e nella fondazione dell'arte della
regia si realizza il verbo del naturalismo scenico. Il dramma naturalista, a cui
nonostante le avanguardie fa ancora riferimento la produzione drammatica contemporanea,
elimina ogni elemento d'effetto spettacolare e costruisce la partitura degli eventi
seguendo con verosimiglianza i microconflitti che si nacondono nei rapporti interpersonali
della società borghese e dei suoi valori morali. Lo stesso spazio scenico è lo spazio
chiuso e autosufficiente del salotto borghese, nel quale il pubblico osserva la vita reale
come attraverso una `quarta parete' a lui trasparente, ma opaca per l'attore.
Nell'universo desacralizzato del dramma naturalista il personaggio consegue quel profilo
moderno che lo definisce come il risultato delle azioni e delle circostanze piuttosto che
di un carattere o di una psicologia definita. I corvi (1875) del francese Henry
Becque venne celebrato come il primo dramma naturalista, ma i risultati maggiori la
poetica naturalista li consegue nelle opere di alcuni autori: Casa di bambola
(1879) di Isben, Il padre (1887) e La signorina Julie (1888) di Strindberg,
Tessitori (1892) di Hauptmann, Amoretto (1894) di Schnitzler, Candida
(1895) di Shaw, per il verismo in Italia Cavalleria rusticana (1884) di Verga,
Tristi amori (1887) e Come le foglie (1900) di Giacosa, L'albergo dei poveri
(1902) di Gor'kij e infine Il gabbiano (1896), Zio Vanja (1897), Tre
sorelle (1901), Il giardino dei ciliegi (1904) di Cechov, l'autore nel quale
naturalismo e simbolismo si fondono con gli esiti più elevati. La drammaturgia
naturalista fu anche il luogo di sperimentazione per una nuova modalità di messa in
scena, attenta alla verosimiglianza del dato materiale e interpretativo, di cui la figura
nascente del regista garantisce la coerenza e l'unitarietà stilistica. Dopo la riforma in
senso filologica realizzata nel ducato di Meiningen tra il 1870 e il 1890, è la nascita
nel 1887 a Parigi del Théâtre-Libre di André Antoine, nel 1889 a Berlino della Freie
Bühne di Otto Brahm, nel 1891 a Londra dell'Indipendent Theatre di J.T. Grein a segnare
la diffusione della scena naturalista in Europa. Ma è all'opera teorica e pratica, e in
particolare all'attività registica (fu regista delle opere di Cechov e Gor'kij) e
pedagogica di Kogstantin Stanislavskij, unita alla fondazione nel 1897 insieme a
Nemirovic-Dancenko del Teatro d'Arte di Mosca, che è legata la prima elaborazione di un
pensiero sistematico intorno all'arte dell'attore e a quella del regista secondo i dettami
di quello che venne definito un `naturalismo spirituale'.
teatro nô
Antico dramma serio giapponese, le cui origini affondano nelle pratiche e cerimonie
sciamaniche, poi passate in forme teatrali popolari e prevalentemente danzate; da queste,
dengaku, bungaku e soprattutto sarugaku, per successive depurazioni, si
arriva a Kan'ami Kiyotsugu (1333-84), capo compagnia teatrale nella città di Nara e
soprattutto a suo figlio, Zeami Motokiyo (1363-1444), che trasformano il sarugaku
(teatro mimico-musicale) in sarugaku nô, ossia d'arte, e ne codificano forme e
repertorio. A Zeami risalgono cinquanta 50 dei circa 240 testi che rappresentano il
repertorio tutt'ora in uso del nô, nonché diversi trattati in cui sono sanciti il
canone, rimasto immutato, e basi teoriche. La materia narrativa deriva dall'antico
patrimonio eroico e feudale giapponese. Canto, recitazione, danza e musica si mescolano
nella rappresentazione del dramma, che dura circa 45 minuti e che prevede uno shite
(protagonista) e un waki (deuteragonista), affiancati da comprimari (tsuri)
e da un coro (ji). Lo shite è spesso un sogno o visione del waki,
che entra in scena per primo e, dopo un breve preludio orchestrale, descrive il luogo in
cui si trova. Avanza lo shite, il waki lo accoglie e lo interroga, lo
shite narra, generalmente in terza persona, la propria vicenda ed esce. In genere, si
tratta dello spirito di un personaggio celebre per le sue gesta, che ha incontrato una
fine dolorosa e che non è ancora del tutto purificato del ricordo della vita terrena e
delle sue passioni; può essere un samurai ucciso per fedeltà o una donna che ha perso
amore o figlio, come è sottolineato dalla varietà dei costumi. Segue solitamente un
intermezzo fra waki e kyogen (buffone; il termine è poi passato ad indicare
gli intermezzi stessi e in seguito farse a sé stanti). Lo shite riappare ora in
nuove vesti, con l'aspetto di quando visse e soffrì. Il waki, che sempre sogna o
ha una visione, lo invita a parlare ancora e lo shite rivive, dialogando con il
coro la propria storia. La struttura drammaturgica è fissa, come i luoghi scenici (la
colonna destra è del waki, quella sinistra dello shite) e il modo di muoversi,
unidirezionale e ondeggiante. I gesti sono pochi e selezionati, spesso con valore
convenzionalmente metaforico (le mani agli occhi per il pianto, alzare il viso
consolazione o chiarore della luna). Il ji, coro formato da
otto-dieci persone,
allineate su due file, commenta e accompagna ed evoca il paesaggio; il gruppo strumentale
che accompagna è composto da tre diversi tipi di tamburi e un flauto. Gli attori sono
solo uomini, che interpretano anche i personaggi femminili. La scenografia è essenziale,
lineare nella funzionalità drammatica e spoglia: secondo il canone fissato da Zeami, il
palcoscenico, comunemente eretto all'aperto, comprende un'area per l'azione, un quadrato
di sei per sei metri, contiguo ad un ponte, sul fondo, che collega il palco con lo
spogliatoio; quattro colonne sostengono un tetto a pagoda, a destra sta una veranda per il
coro, di fronte una scaletta collega il palco alla platea, ma è solo simbolica (non viene
mai usata). Sul fondo, dove è dipinto l'unico elemento scenico del nô, un vecchio pino
nodoso, siede l'orchestra. I costumi sono sontuosi e si usano maschere elaborate, una
settantina di tipi, che posseggono autonomo valore artistico. In genere vengono
rappresentati cinque nô (in passato, solitamente sette) in serie, intercalati da
kyogen. Il nô, nato come genere elitario, rimasto per secoli patrimonio
dell'aristocrazia militare (era ritenuto essenziale per la formazione dei samurai, ai
quale erano vietati invece altri generi, come il kabuki), è tramandato ancor oggi
per tradizione familiare, a memoria, di padre in figlio (che può essere adottivo, come
spesso diviene l'allievo prediletto).
teatro radiofonico
Archibald Mac Leish, e la nota trasmissione di Orson Welles culminata con la
messa in onda di The War of the Worlds di H.G. Wells (1938), che causò grande
spavento in molti ascoltatori convinti che si trattasse di un notiziario di attualità. In
tutta Europa (esclusa l'Italia) il radiodramma ha acquistato una fama e un prestigio ormai
saldamente consolidati. La Gran Bretagna ha una notevole tradizione in questo campo
(Stoppard, Beckett, Pinter, Spark, Arden, Thomas, Wesker). Pure in Francia troviamo tra
gli autori di radiodrammi i maggiori letterati del Novecento: Artaud, Queneau, Sarraute,
Duras, vari esponenti del Teatro dell'assurdo e del Nouveau roman. La stagione più felice
del radiodramma tedesco va dal 1925 al 1940, ma prosegue ancora oggi una vastissima
produzione, la cui fortuna è dovuta a nomi come quelli di Brecht, Frisch, Dürrenmatt,
Handke. Nel nord Europa la situazione non cambia; ricordiamo che anche l'esordio di Ingmar
Bergman è stato nel campo della radiodrammaturgia. In Italia pochi dei nostri letterati e
drammaturghi si sono cimentati nel radiodramma: tra i nomi più noti si possono citare
solo Savinio, Pratolini, Fabbri, Bontempelli, Anton, Buzzati, Primo Levi. Dall'inizio
delle trasmissioni (1924) fino al dopoguerra la radio è stata considerata nel nostro
paese soprattutto un mezzo di propaganda; in seguito è stata quasi sempre privilegiata la
musica in quanto considerata un intrattenimento più gradito dal pubblico. Così è giunta
relativamente tardi la consapevolezza delle possibilità del mezzo, e il mondo
intellettuale raramente gli si è accostato con continuità. Non è un caso che il
radiodramma Rai di maggior successo sia stato I 4 moschettieri di Nizza e Morbelli
(1934-35), evasiva parodia umoristico-canora che a lungo restò il modello della rivista
musicale radiofonica. Prima del 1950, la prassi del teatro radiofonico italiano si
limitava per lo più all'allestimento di opere molto semplici, prevalentemente di autori
italiani, le quali si prestavano a essere recitate in diretta; il risultato era raramente
qualcosa più di un `rozzo artigianato rumoristico'. La nascita del Prix Italia
costituisce un notevole stimolo per la produzione radioteatrale, perché istituisce
contatti periodici tra esperti di vari Paesi permettendo confronti fruttuosi. Sempre nel
1950 l'apertura del terzo programma vede affacciarsi nel palinsesto titoli di romanzi e
racconti sceneggiati, di classici del teatro di tutti i tempi e tutto il mondo, di
commedie e radiodrammi contemporanei. L'inizio delle trasmissioni televisive non danneggia
affatto l'attività della radio nel campo teatrale, in quanto gli anni '60 costituiscono
senza dubbio il periodo più felice della prosa radiofonica italiana, in cui a un apparato
tecnico molto raffinato corrispondono una selezione di testi attenta e sistematica e una
pratica di messinscena professionalmente elevatissima. La Rai può contare non solo su
vari registi di grande mestiere come Morandi, Majano e Scaglione, ma anche su giovani
sperimentatori come Lerici, Pressburger, Bene, Quartucci, Liberovici e su musicisti quali
Berio, Nono, Maderna. Nonostante il successo delle trasmissioni di `intrattenimento in
diretta', il teatro radiofonico ottiene ancora ottimi risultati espressivi, grazie anche
alla riforma della Rai (1976) in seguito alla quale vengono programmati grandi `cicli'
teatrali dedicati a Schnitzler, Miller, Duras, Svevo ecc., e grazie all'impegno dimostrato
dalla sperimentazione teatrale degli anni '80 nel tentativo di rinnovare il linguaggio
radiofonico spesso legato a stereotipi monotoni e ripetitivi. Nel 1997 Luca Ronconi ha
promosso un vasto programma di teatro radiofonico scegliendo testi e registi, dirigendo
egli stesso alcuni spettacoli, con l'obiettivo di non surrogare l'esperienza del
palcoscenico, ma di rivolgersi all'ascoltatore considerandolo simile al lettore di un
libro, pronto a lavorare con la propria fantasia.
teatro per ragazzi
linguistico, comunicativo e culturale. In
Italia la prima serata di trasmissioni ufficiali della Rai (il 3 gennaio 1954) presentò
in `prima serata' una commedia di Goldoni, L'osteria della posta, diretta da Franco
Enriquez; in seguito, per molto tempo il palinsesto dedicò agli spettacoli di prosa un
rilievo particolare in ragione di una progettualità culturale, didattica e ricreativa. La
`maniera teatrale' si impose nei programmi televisivi degli anni '50 e '60 come strumento
ideale attraverso il quale il pubblico veniva istruito, informato e divertito, secondo un
preciso progetto di formazione culturale delle masse. Dello stesso progetto facevano parte
anche i romanzi sceneggiati, i quali si fondavano su impianti scenografici, schemi
recitativi e drammaturgici tipici della tradizione del palcoscenico. Negli Usa i network
hanno prodotto, fin dai primi anni della loro attività, molti eccellenti teledrammi
scritti appositamente per la tv, per lo più con ripresa in diretta da studio. Autori come
Paddy Chayefsky hanno svolto un attento studio sul ruolo dei mezzi tecnici ed espressivi
della tv al servizio dell'azione scenica. Anche in Gran Bretagna gli adattamenti di testi
teatrali sono stati meno numerosi dei teledrammi, scritti spesso da grandi personalità
come Osborne, Pinter, Owen, Arden. In Italia invece sono scarsi gli esempi memorabili di
teledrammaturgia, proprio perché si è sempre preferito puntare su testi in qualche modo
già accolti dalla cultura scolastica e popolare. La storia del nostro teatro televisivo
è dunque legata non al nome degli autori dei testi, ma soprattutto a quello dei registi
che hanno elaborato un proprio modo originale di leggere e interpretare testi teatrali,
romanzi e racconti: in più di quindici anni Anton Giulio Majano, Sandro Bolchi, Silverio
Blasi, Daniele D'Anza, Vittorio Cottafavi, Guglielmo Morandi e altri hanno codificato il
linguaggio del teatro televisivo realizzando opere di pregio, ma riducendo talora
l'immagine ad un ruolo di sudditanza rispetto alla parola. Per primi Eduardo De Filippo,
Giorgio Strehler, Luigi Squarzina e Ugo Gregoretti hanno intuito che la traduzione
televisiva dell'evento teatrale deve tenere conto della specificità della tv in quanto
mezzo stesso di `scrittura' dello spettacolo. La `svolta' decisiva arriva negli anni '70,
quando i maggiori registi del teatro di ricerca dell'epoca (Luca Ronconi, Carmelo Bene,
Carlo Quartucci) sperimentano un rapporto del tutto nuovo tra il loro lavoro scenico e la
televisione. Essi inventano un modo originale di usare le inquadrature, i movimenti delle
telecamere, gli effetti speciali elettronici, i microfoni e la presa diretta, realizzando
spettacoli solo in funzione del mezzo elettronico e delle sue caratteristiche
drammaturgiche. Contemporaneamente a queste notevoli sperimentazioni, le trasmissioni
televisive di prosa diventano meno frequenti. Le ragioni del diminuito interesse della Rai
per il teatro sono dovute soprattutto a motivazioni d'ordine economico: la concorrenza con
le televisioni private porta a privilegiare gli schemi spettacolari del cinema e della
pubblicità, più graditi dal grande pubblico. In questi ultimi anni stiamo peraltro
assistendo ad un nuovo interesse per il teatro televisivo in tutta Europa, come dimostrato
dalle trasmissioni franco-tedesche di Arte; in Italia la Rai torna a dedicare spazio a
questo tipo di spettacolo, alternando prodotti convenzionali ad altri in qualche modo
innovativi e stimolanti. È discutibile il fatto che il teatro televisivo sia un vero e
proprio `genere', in base ad una `griglia' attiva sul piano dei contenuti e sulla
struttura formale. Non pare possibile individuare tassonomie utili a `catalogare' le varie
opere teleteatrali in categorie definite secondo precisi principi semantici. Sono stati
talora proposti criteri di classificazione in base al tipo di testo drammaturgico, al
luogo ove vengono effettuate le riprese televisive, al livello di comunicazione e di
fruizione in cui il prodotto video si inserisce. Sono state distinte le forme `pure' di
teleteatro (trasmissioni in diretta, adattamenti, traduzioni), quelle derivate (programmi
di fiction, di informazione, di intrattenimento con modello teatrale), quelle miste
(originali televisivi). È facile però dimostrare che in molti casi non è assolutamente
possibile definire con univocità il materiale audiovisivo secondo i principi sopra
accennati, perché numerose sono le contaminazioni e le interferenze tra un modello e
l'altro.
varietà
inaugurato nel 1909 da Raffaele
Viviani e la Sala Umberto aperta da Ettore Petrolini nel 1912. In questi luoghi lussuosi e
ben frequentati, gli impresari riunirono il meglio di ciò che capitava nei caffè
concerto e nei `padiglioni della meraviglie'. C'erano comici, duettisti e cantanti,
ovviamente; ma anche ballerine, maghi illusionisti e prestidigitatori, contorsioniste,
donne barbute e ballerini acrobatici, forzuti e giocolieri. In più, sul finire degli anni
'10, fra i vari numeri del varietà comparve anche il cinematografo, sotto forma di breve
proiezione di una farsa o di un rapido dramma a fosche tinte. Così arrivarono in Italia
alcuni grandi comici stranieri (Harold Lloyd o Charlie Chaplin) e così si sviluppò la
prima industria cinematografica autoctona (a Torino si producevano le comiche, a Napoli i
drammi). Siamo a metà degli anni '10 quando la guerra scalfisce le abitudini dell'Italia
lontana dal fronte ma fa arricchire improvvisamente temerari impresari teatrali che
organizzano spettacoli per i prigionieri, i feriti, gli orfani, i reduci... È da tutto
questo che il varietà trae la sua energia maggiore, arrivando a essere unica forma di
spettacolo totalmente nazionale e vero emblema dell'unità d'Italia: vi si recitano e
cantano testi scritti in tutte le lingue-dialetti italiane (non solo napoletano e
veneziano, ma anche milanese, piemontese, siciliano, romanesco...). Nel varietà nacquero
e prosperarono alcuni fra i massimi artisti teatrali della prima metà del Novecento.
Prima di tutti Nicola Maldacea, cantante napoletano che inventò la `macchietta', ossia la
canzone comica in versi basata su una struttura narrativa molto articolata e di forte
carica satirica. Poi vanno ricordati anche Leopoldo Fregoli (imitatore straordinario,
capace di cambiare decine di fattezze e abiti nel corso di una sola serata); Ettore
Petrolini (autore di alcune straordinarie parodie); Gustavo De Marco (il celebre
uomo-marionetta cui si ispirò Totò); Anna Fougez (grande cantante) e suo marito René
Thano (ballerino e raffinato coreografo); Raffaele Viviani (creatore di caratteri comici e
drammatici rimasti nella storia di tutto il teatro del Novecento, non solo del varietà);
Gilberto Govi (autore di sketch che spesso raggiungevano la dimensione della vera e
propria commedia); Angelo Musco (irresistibile maschera tragicomica siciliana), Angelo
Cecchelin (unico comico capace di reale ostilità nei confronti del futuro regime
fascista). Oltre alla macchietta, il varietà diede corso a una ricca produzione di
canzoni popolari ma anche di monologhi, sketch e parodie. In ogni caso, tutto ruotava
intorno a una trovata (per lo più comica) legata all'equivoco di un doppio senso che, se
nei casi migliori nascondeva un risvolto spinto, nella maggior parte delle circostanze
smetteva di essere doppio palesando sconcezze fin troppo dirette. Il varietà ebbe un
successo popolare e mondano assolutamente strepitoso (non paragonabile ad alcun altro
genere di spettacolo all'epoca) nei primi tre decenni del Novecento, generando poi, in
seguito a una radicale trasformazione del mercato teatrale, l'avanspettacolo e la rivista,
generi di altrettanto vasto successo nei due decenni successivi.
| Accademia d'arte drammatica | Accademia dei Filodrammatici | Actors Studio | Paolo Grassi (scuola del Piccolo Teatro) |
Accademia d'arte drammatica `Silvio D'Amico'
Kazan e
Robert Lewis, dalla produttrice Cheryl Crawford, è in seguito diretto dal 1951 da Lee
Strasberg, allontanatosi Lewis per dissensi artistici e poco presente Kazan per i molti
impegni a Broadway e a Hollywood. Tutte queste persone avevano vissuto negli anni '30
l'esperienza del Group Theatre e avevano improntato fin da allora la propria attività ai
principi di Stanislavskij, appresi attraverso le lezioni del regista polacco Richard
Boleslavski, emigrato dal Teatro d'Arte di Mosca agli Usa, e dalla pubblicazione in Europa
e in America della prima parte del Lavoro dell'attore, la più importante opera
teorica del Maestro. Scopo dell'Actors Studio era fornire agli attori (ammessi dopo una rigorosa
selezione) uno spazio nel quale perfezionare i propri strumenti espressivi in esercizi non
finalizzati alla produzione di uno spettacolo. Era la versione americana del `sistema' del
regista russo, il cosiddetto `metodo' caratterizzato da una particolare accentuazione
degli esercizi di `memoria emotiva' passati attraverso il filtro della psicoanalisi.
Strasberg ne divenne l'esponente principale e sotto la sua guida lavorarono molti attori
destinati a diventare famosi sulle scene e sullo schermo (M. Brando, J. Dean, M.
Clift, D. Hoffman, R. De Niro, A. Pacino, S. Winters, G. Page).
Scuola d'arte drammatica `Paolo
Grassi'
Fondata nel 1951 da Paolo Grassi e Giorgio Strehler come scuola del Piccolo Teatro, dal
1967 passa alla gestione del Comune di Milano. Dopo aver proposto un corso per attori ha
successivamente esteso il campo della formazione professionale ad altre attività dello
spettacolo: oggi offre corsi di regia teatrale, corsi per operatori dello spettacolo,
corsi di scrittura drammaturgica e atelier di teatro-danza, rappresentando un punto di
riferimento fondamentale nel panorama delle scuole di teatro. Si è imposta nel campo
della ricerca e della promozione culturale organizzando seminari e incontri con importanti
personaggi del mondo dello spettacolo e proponendo la rassegna `Scena prima' per la
ricerca di nuovi gruppi teatrali. Attiva nelle varie manifestazioni delle città italiane
con i suoi spettacoli, nella attuale sede di via Salasco ospita una biblioteca
specializzata, un laboratorio audiovisivi, una sartoria teatrale e un laboratorio di
costruzione scenotecnica. Moltissimi i diplomati diventati famosi, per citare solo gli
ultimi: P. Rossi, A. Albanese. Tra i direttori vanno almeno citati: Roberto Leydi per
l'intensa attività sulla cultura popolare e Renato Palazzi per l'apertura ai maestri
stranieri da Müller a Kantor alla Bausch.
Stanislavskij Konstantin Sergeevic
(K. S. Alekseev; Mosca 1863 - 1938), attore, regista e teorico teatrale russo. Figlio di
un facoltoso industriale, frequenta fin dall'infanzia teatri e circhi moscoviti; inoltre
sia nella tenuta di Ljubimovka, vicino a Mosca, sia nella casa di città, la famiglia
possiede due teatrini privati dove Stanislavskij con i fratelli organizza spettacoli
amatoriali, soprattutto operette e vaudeville. Nasce così il `circolo Alekseev', molto
apprezzato nella buona società moscovita, dove comincia la lunga carriera di
Stanislavskij attore e regista dilettante: una carriera lunghissima, più che ventennale,
che dura dal 1877 (inaugurazione del teatrino di Ljubimovka) fino al 1898 (apertura del
Teatro d'Arte). Frequenta per breve tempo la scuola d'arte drammatica dei teatri
imperiali, prende lezioni di canto da F. Komissarzevskij, ma capisce presto che la vera
scuola sono le tavole del palcoscenico e partecipa perciò molto attivamente a spettacoli
filodrammatici in circoli e associazioni diverse, scegliendosi lo pseudonimo di
Stanislavskij Nel 1888 con il regista Fedorov, il cantante Komissarzevskij e il pittore F.
Sollogub fonda la `Società d'arte e di letteratura', che è insieme club di amatori delle
arti, scuola e circolo filodrammatico: Stanislavskij interpreta alcuni ruoli molto
importanti (il Barone ne Il cavaliere avaro di Pukin, Sotenville in
Georges Dandin di Molière, Ananij Jakovlev in Amaro destino di Pisemskij,
Ferdinando in Amore e raggiro di Schiller, Paratov in Senza dote di
Ostrovskij e Otello). Fra le attrici scritturate c'è la giovane Lilina, che diventa sua
moglie nel 1889 e gli rimarrà accanto tutta la vita, interpretando ruoli di primo piano
in molti spettacoli da lui diretti. Oltre che interprete sempre più apprezzato da critica
e pubblico, Stanislavskij è anche regista: grande interesse suscita I frutti
dell'istruzione di L. Tolstoj (1891), dove viene approfondito con coraggio il tema
sociale (ne scrive entusiasta un critico che di lì a poco si unirà a Stanislavskij
nell'impresa del Teatro d'Arte, Vladimir Nemirovic-Dancenko), a cui seguono Uriel
Acosta di Gutzkow (1895), Otello di Shakespeare (1896), Senza dote di
Ostrovskij, L'ebreo polacco di Erckmann (1896), La campana sommersa di
Hauptmann (1898). Nel 1890 è in tournée a Mosca la compagnia tedesca del duca di
Meiningen: Stanislavskij è colpito dalla ferrea disciplina ottenuta dal regista nel
lavoro con gli attori, dalla perfezione delle scene di massa, dalla ricercatezza di
ambienti e costumi, tutti elementi che cerca di introdurre nel suo lavoro. Una svolta
nella vita di Stanislavskij segna l'ormai leggendario incontro con il critico
Nemirovic-Dancenko del 21 giugno 1897: in un colloquio durato quindici ore pongono le basi
della futura collaborazione e tracciano le linee del loro programma. Viene decisa la
fondazione del Teatro d'Arte, con una compagnia formata da elementi della Scuola dove
insegna Nemirovic (I. Moskvin, O. Knipper, Vs. Mejerchol'd ecc.) e da attori della
Società guidata da Stanislavskij (M. Lilina, M. Andreeva, A. Sanin, A. Artem ecc.).
Precise sono le competenze: Nemirovic, scrittore e amico di scrittori, si assume il
compito di guidare il nuovo teatro nelle scelte di repertorio; Stanislavskij, più esperto
in campo registico, ha la responsabilità del settore artistico. Ogni consuetudine, in
atto da decenni nei maggiori teatri russi, viene rivoluzionata: priorità della figura del
regista nei confronti della compagnia; nessuna distinzione tra ruoli ("Oggi Amleto,
domani comparsa, ma sempre allo stesso livello artistico"); lunghi periodi di prove
(invece delle quattro, cinque tradizionali), prima a tavolino poi in scena, con
dettagliata disamina del testo, dell'ambiente culturale dell'autore, del periodo storico
ecc.; accurata preparazione di scenografie e costumi studiati per ogni singolo spettacolo,
al posto di inerti fondali e costumi di repertorio; abolizione della musica generica in
apertura di spettacolo e negli intervalli; collaborazione stretta e continua tra tutti i
collaboratori allo spettacolo ("L'autore, l'attore, il pittore, il sarto, l'operaio
devono servire all'unico fine posto dall'autore alla base della sua opera").
Stanislavskij, per facilitare e insieme rendere più rigoroso il lavoro degli attori,
prepara per ogni spettacolo note precise a ogni singola battuta, con i movimenti di chi la
pronuncia e di chi la ascolta, e indicazione di intonazione: i suoi copioni di regia, oggi
in gran parte pubblicati, testimoniano la straordinaria cura e intelligenza del lavoro
preparatorio per ogni spettacolo. Il Teatro d'Arte si inaugura il 14 ottobre 1898 con
Lo zar Fëdor Ioannovic di A. Tolstoj, che suscita meraviglia per la precisione
naturalistica, la ricchezza di scene e costumi, l'intensità d'interpretazione dell'intera
compagnia. Il primo testo di argomento contemporaneo (e anche il primo in cui
Stanislavskij e Nemirovic collaborano alla regia) è Il gabbiano di Cechov:
Nemirovic riesce a vincere le resistenze dell'autore (due anni prima era stata un fiasco
al teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo) e lo spettacolo nella nuova edizione ottiene un
trionfo, diventa simbolo della rivoluzione operata dal Teatro d'Arte. Da allora tutti i
nuovi lavori di Cechov vanno in scena al Teatro d'Arte con immutato successo: Zio Vanja
(1899), Tre sorelle (1901), Il giardino dei ciliegi (1904). Nella sua
autobiografia Stanislavskij divide le regie dei primi anni in diverse linee: la linea
storica (La morte di Ivan il Terribile di A. Tolstoj, 1899; lavori di Shakespeare,
Hauptmann), la linea della fantasia (La fanciulla di neve di Ostrovskij, 1900;
L'uccellino azzurro di Maeterlinck, 1908), la linea del simbolismo e
dell'impressionismo (L'anitra selvatica, 1901 e Spettri, 1905 di Ibsen;
Il dramma della vita di Hamsun, 1907; La vita dell'uomo di Andreev, 1907), la
linea dell'intuizione e del sentimento (oltre ai lavori di Cechov, Un mese in campagna,
1909 e i vaudeville, 1912, di Turgenev), la linea social-politica (soprattutto i lavori di
Gor'kij: Piccoli borghesi e Bassifondi, 1902 e I figli del sole,
1905). Nel 1905, insoddisfatto del sistema di lavoro fino allora attuato, pronto a tentare
nuove vie ma convinto dell'impossibilità di sperimentarle in un teatro con spettacoli
giornalieri, prove per tutto il giorno, bilancio rigidamente calcolato, fonda uno Studio
(chiamato di via Povarskaja, dal nome della via dove ha sede) e chiama a dirigerlo un suo
attore, divenuto regista lontano dal Teatro d'Arte, Vsevolod Mejerchol'd: con lui
rivoluziona il sistema di prove, elimina la lettura a tavolino, va direttamente in scena e
studia nuove soluzioni insieme agli attori, con improvvisazioni, ricerche sulla
gestualità. La morte di Tintagiles di Maeterlinck, spettacolo che dovrebbe
inaugurare lo Studio, non soddisfa Stanislavskij che decide di chiudere l'esperimento; ma
la spinta verso un rinnovamento sia del metodo di lavoro sia del repertorio rimane.
Comincia in questi anni le prime ricerche sul `sistema': come far sì che la parte,
ripetuta tante volte, non diventi iterazione meccanica di stampi esteriori? Stanislavskij
pone le basi di un nuovo lavoro dell'attore su se stesso e sulla parte; lavoro sia
interiore, sulla psiche, sia esteriore, sulla gestualità. Intanto l'esperimento fallito
dello Studio lascia tracce: Stanislavskij rivolge l'attenzione a un diverso tipo di testi,
soprattutto simbolisti (Hamsun, Andreev), allontanandosi dall'eccessivo psicologismo e dal
naturalismo delle messinscene cechoviane e gorkiane. Il tentativo di una maggiore
`convenzionalità' culmina nella messinscena dell'Amleto, in collaborazione con il
regista inglese Gordon Craig (1910): collaborazione difficile, perché all'astratta
concezione di una scenografia geometrica (impostata su pannelli mobili) e di
attori-marionette di Craig si contrappone l'idea stanislavskiana di una scena verosimile,
abitata da attori in carne e ossa. Nel 1912 riorganizza uno Studio (il Primo Studio del
Teatro d'Arte) dove, con un gruppo di giovani attori e l'aiuto di un prezioso
collaboratore, L. Sulerzickij, si mette a studiare il `sistema', ad approfondire le
ricerche su voce, movimento, rapporto tra testo e psiche dell'attore. La rivoluzione
d'Ottobre cambia totalmente la situazione anzitutto economica di Stanislavskij: non è
più il facoltoso figlio di un ricco industriale, deve guadagnarsi da vivere con il suo
lavoro di attore e regista. Inoltre accettare la nuova situazione significa cambiare il
repertorio, rinnovare gli autori, adeguarsi ai radicali mutamenti nel sistema di vita e di
organizzazione del teatro. Stanislavskij entra in crisi (e con lui il Teatro d'Arte): non
riesce a uscire dal circolo chiuso dei classici; La dodicesima notte al Primo
Studio (1917) ha successo ma non va certo nella direzione del rinnovamento che ci si
aspetta, la messinscena di Caino di Byron (1920) è un mezzo fiasco, quella del
Revisore di Gogol' (1921) viene lodata soprattutto per l'interpretazione del
protagonista Michail Cechov (nipote del drammaturgo). Gli organi di stampa dei bolscevichi
attaccano il Teatro d'Arte, decrepito monumento del vecchio regime spazzato dalla
rivoluzione. Nel 1922-24 Stanislavskij con una parte della compagnia compie una trionfale
tournée in Europa e in America, che riconferma anche in patria la credibilità del Teatro
d'Arte; su richiesta di un editore americano scrive La mia vita nell'arte, ampia
autobiografia dove parla già ampiamente del `sistema'. Al ritorno, dopo Cuore ardente
di Ostrovskij (1926), Stanislavskij si apre al repertorio sovietico, senza tuttavia
esporsi in prima persona (fa firmare le regie a I. Sudakov); e ottiene due successi con
I giorni dei Turbin di Bulgakov (1926) e Il treno blindato 14-69 di Vs. Ivanov
(1927), a cui seguono Untilovsk di Leonov (1928) e I dissipatori di Kataev
(1928). Ma gli spettacoli che gli riescono meglio sono ancora i classici, Il matrimonio
di Figaro di Beaumarchais (1927), Anime morte da Gogol', Attrici di talento
e ammiratori di Ostrovskij (1933). Nel 1928, in seguito a un attacco cardiaco durante
una replica di Tre sorelle, smette fino alla morte di recitare e si dedica
completamente alle ricerche sul `sistema' e a qualche regia (Molière di Bulgakov,
Tartufo di Molière), la cui lunghissima gestazione gli serve più per controllare gli
esperimenti sull'attore che per approdare a un vero spettacolo. La dittatura staliniana lo
trasforma in un rigido simbolo del realismo in teatro, forzatamente contrapponendolo a
registi d'avanguardia come Mejerchol'd, accusati di formalismo, di deviazione dalle linee
di partito. Nel 1937 conclude il primo volume del suo lavoro sull'attore, Il lavoro
dell'attore su se stesso (che esce pochi mesi dopo la morte, alla fine del 1938), e ha
pronta una gran quantità di materiali per il seguente, Il lavoro dell'attore sul
personaggio.
Secondo Stanislavskij l'attore giunge alla creazione solo se riesce a dominarsi e a concentrare tutta la propria sostanza corporea e spirituale, se allenta e rilassa la tensione dei muscoli, se sottomette alla volontà l'apparato fisico. Uno dei primi concetti che Stanislavskij propone è il `se', da cui parte tutto il processo creativo: il `se' è la condizione fittizia in cui l'attore deve agire per rappresentare. La finzione, introiettata, provoca una reazione reale, che realizza lo scopo prefisso, contenuto nel `se'. Dunque il `se' è un'ipotesi di lavoro su un avvenimento supposto: obbliga l'attore a reagire con un'azione reale a una circostanza immaginaria. Altro concetto, le `circostanze date': sono l'intreccio, i fatti, gli avvenimenti, l'epoca, il momento, il luogo dell'azione e quello che noi come interpreti aggiungiamo sia come interpretazione sia come allestimento (scenografie, luci, suoni, rumori). Il `se' e le `circostanze date' sono l'uno il complemento delle altre: il `se' dà l'avvio all'azione, le `circostanze date' la completano, la giustificano. L'immaginazione è in questo senso elemento fondamentale del mestiere dell'attore, perché l'autore raramente indica in modo completo le situazioni in cui vivono i suoi personaggi. Le didascalie e le indicazioni devono essere completate dall'attore, visualizzate con estrema precisione. L'insieme di queste visualizzazioni, che devono essere ininterrotte (una specie di film da proiettare continuamente sullo schemo interiore dell'attore), costituisce la `linea' del personaggio. Altro elemento fondamentale, l'attenzione. Per evitare distrazioni l'attore deve esercitare l'attenzione, concentrandosi su singoli oggetti in scena (`oggetti-punto'), fino ai quattro `cerchi di attenzione' (piccolo, medio, grande, massimo): partendo da una zona limitata (un tavolo con i suoi oggetti) l'attore deve arrivare a comprendere tutto lo spazio scenico, ma appena i contorni del cerchio si confondono bisogna immediatamente restringere il cerchio, limitandolo agli oggetti che sono a portata dell'attenzione visiva dell'attore. La teoria dei `cerchi' è connessa con quella della `solitudine in pubblico': l'attore deve saper raggiungere, pur in presenza di centinaia di spettatori, un assoluto isolamento. Uno dei nemici più implacabili dell'attore nell'esercizio del suo mestiere è la tensione o contrazione muscolare, che può manifestarsi in un punto qualsiasi del corpo: corde vocali, con conseguente raucedine, abbassamento di voce, gambe, mani, soprattutto viso che si contorce in smorfie, gonfiori, tic ecc.; la lotta a questo difetto deve essere costante, non solo durante gli spettacoli ma anche fuori scena, nella vita normale. Un concetto fondamentale del metodo Stanislavskij è quello della `memoria'. Esiste una `memoria esteriore', che permette all'attore di ripetere meccanicamente una scena ben riuscita, e una ben più importante `memoria emotiva', che lo aiuta a portare in scena la propria riserva di emozioni; dunque quanto più la `memoria emotiva' sarà ampia, forte, tanto più ricca e completa sarà la sua creazione. Perciò fondamentale per l'attore è creare delle `riserve', ossia ampliare la sfera delle emozioni attraverso letture, ricordi, viaggi, visite a musei, e soprattutto con incessanti rapporti con i propri simili. Per arrivare al personaggio l'attore deve ottenere, come si è detto, una `linea ininterrotta', lavorare con ricordi, situazioni immaginate, sogni, partendo dalla cosiddetta `toilette dell'anima' (rilassamento muscolare, creazione di un piccolo cerchio di attenzione, ripasso dei `se' e delle `circostanze date', concentrazione sul tema principale). Il tema principale deve essere presente per tutta la durata dello spettacolo a tutti gli interpreti, ognuno dei quali lo filtra attraverso il proprio io, lo assimila attraverso la propria sensibilità: i `se' e le `circostanze date' assumono un senso solo quando trovano la loro relazione con il tema principale. Uno dei punti nevralgici del sistema è il `tempo-ritmo': ogni nostra azione, passione, sensazione, nella vita come sulla scena, è regolata da un tempo-ritmo, a cui di solito non prestiamo attenzione. L'attore invece deve sviluppare al massimo un metronomo interiore, che lo aiuta a sentire intuitivamente in modo esatto quello che dice e fa in scena. Molti testi teatrali hanno diversi tempi-ritmi combinati insieme (i personaggi cechoviani hanno spesso ritmi esteriori lentissimi e ritmi interiori agitatissimi). Due sono per Stanislavskij i grandi processi che sono alla base dell'interpretazione: quello di personificazione e quello di reviviscenza. Il processo di personificazione parte dal rilassamento muscolare, per poi proseguire con lo sviluppo dell'espressività fisica (ginnastica, danza acrobatica, scherma, lotta, boxe), la plastica, l'impostazione della voce (respiro, canto), la dizione (studio della fonetica, dell'intonazione), logica e coerenza delle azioni fisiche, caratterizzazione esteriore. Il processo di reviviscenza parte dalle funzioni dell'immaginazione (il `se', le `circostanze date') e prosegue con la divisione del testo in sezioni (all'interno delle quali vengono identificati i `compiti' da eseguire), con lo sviluppo dell'attenzione, l'eliminazione dei cliché, l'identificazione del tempo-ritmo. La reviviscenza è fondamentale perché tutto ciò che non è rivissuto in modo autentico resta inerte, meccanico, inespressivo. Ma non basta che la reviviscenza sia autentica; deve essere in perfetta consonanza con la personificazione. Talora avviene infatti che l'attore abbia una reviviscenza profonda, ma la deformi con una personificazione grossolana, dovuta a un apparato fisico non allenato, incapace di trasmettere quello che l'attore sente. Non c'è attore che crei per ispirazione divina: più l'attore ha talento, più si preoccupa della tecnica soprattutto interiore. Il sistema non è un metodo di recitazione, è un allenamento, attraverso cui si può raggiungere la creazione. Per quanto riguarda la seconda parte del sistema, la creazione del personaggio, Stanislavskij indica tre tappe: 1) la conoscenza (prima lettura, in cui l'attore deve lasciar affiorare immagini, ricordi, pensieri, associazioni; analisi in tre direzioni: approfondimento del testo, ricerca di suggerimenti non contenuti nel testo ma deducibili da accenni o da altri materiali, lavoro di `contatto' tra mondo interiore dell'attore e del personaggio); 2) la reviviscenza, sollecitata dai compiti (sia meccanici sia razionali sia emozionali); 3) la personificazione. Negli ultimi anni Stanislavskij rivoluziona questo schema tripartito per dare la precedenza, nella costruzione del personaggio, alle `azioni fisiche': consiglia di riprodurre l'intreccio esteriore, episodio per episodio, con semplici azioni fisiche, evitando i compiti troppo difficili, ricercando la logica e la coerenza a partire dal gesto. Non più dunque una lettura approfondita del testo, ma una serie di gesti (relativi a una condizione data) che sollecitano la giusta reazione interiore: non è infatti possibile agire all'unisono col personaggio e sentire in dissonanza con esso. Solo quando si raggiunge la sensazione di `essere' nel personaggio si può affrontare lo studio più dettagliato del testo. In conclusione si può affermare che l'importanza del sistema sta soprattutto nel fatto che per la prima volta il processo creativo dell'attore viene sottoposto a un'analisi rigorosa da parte di un competente, attore lui stesso, capace di utilizzare nella sua analisi alcuni principi della moderna psicologia: ancor oggi in Europa e in America qualsiasi teoria del lavoro dell'attore fa riferimento ai lavori di Stanislavskij.